Con la morte di Norberto Bobbio nel 2004 si è chiusa un’epoca della cultura italiana e torinese in particolare. Mi sono considerato per molti anni un devoto allievo, e sono stato anche un amico fedele di Bobbio e sono cresciuto leggendo i suoi libri, ascoltando le sue lezioni, conversando molte volte con lui, ospite abituale in tanti incontri al Centro “Pannunzio”. Solo Alessandro Passerin d’Entrèves ha avuto un peso simile nella mia formazione intellettuale e civile.
Bobbio è stato considerato, non a torto, quasi come il Croce della seconda metà del Novecento, poiché egli ha rappresentato più di ogni altro un punto di riferimento costante del dibattito intellettuale. C’è stato chi, polemizzando rozzamente con lui, lo ha definito «un professore di filosofia» e non un filosofo, mentre invece Bobbio è stato e continua a restare uno dei pensatori italiani più importanti del Novecento, paragonabile in parte a Sartre, ad Aron, a Popper, a Russell. Senza misurarsi con le idee di Bobbio non era possibile far cultura per davvero perché il suo pensiero ha rappresentato per molti intellettuali una delle pietre di paragone con cui confrontarsi. I marxisti, Togliatti in primis, dovettero dibattere con lui che con quel libro Politica e cultura, uscito nel 1955, aveva avviato un confronto molto duro, ma anche molto aperto, con il dogmatismo marxista di quegli anni, affermando il valore della libertà come valore supremo e delineando, in antitesi con Gramsci, quell’«intellettuale disorganico» di cui tardivamente si è incominciato a parlare dopo la caduta dei muri delle ideologie. In quegli anni lo scontro con i credenti della “chiesa” marxista fu molto aspro ed è a quel Bobbio che dobbiamo tutti qualcosa perché in anni difficili ebbe il coraggio di andare controcorrente.
«Compito degli uomini di cultura – egli scriveva – è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze». Ed ancora: «Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione…». Era il tempo degli slogan e delle certezze ideologiche inossidabili e Bobbio prese le distanze da ogni forma di cultura granitica ed arroccata, rifiutando di indossare l’elmetto e di ripetere ogni vulgata semplicistica. Basterebbe da sola questa scelta per vedere in Bobbio un maestro. Ma ci sarebbe molto altro da dire sulla sua statura di intellettuale che è da tempo entrato nella storia della cultura italiana ed internazionale come uno dei protagonisti di maggiore spicco.
Ho conosciuto Bobbio da vicino e l’ho anche frequentato con una certa assiduità. Ci davamo del tu, ma confesso che ho fatto difficoltà ad avere confidenza con lui perché in me prevaleva la figura del maestro su quella dell’amico.
Faccio accenno ad alcuni aspetti che meritano una riflessione.
Di fronte alla “terza forza”, voluta, tra gli altri, dagli uomini del “Mondo” di Pannunzio, Bobbio ha costantemente affermato che la laicità non poteva costituire il motivo fondante per una proposta politica partitica, ma doveva semmai essere intesa come un metodo con il quale affrontare i problemi, creando qualche dispiacere anche al comune amico Giovanni Spadolini che di quella proposta, come segretario del Pri, fu il continuatore. Si tratta di una posizione che venne anche ripresa dal massimo storico del liberalismo italiano, Nicola Matteucci, con il quale Bobbio creò il capolavoro del Dizionario di Politica, edito dalla Utet.
Di fondamentale importanza è la distinzione che Bobbio stabilisce nel 1991 tra laicità e laicismo, una distinzione dai più non abbastanza considerata:
Ritengo sia da mantenere la distinzione fra i due termini “laicismo” e “laicità”. Il primo viene di solito usato con una connotazione negativa, per non dire addirittura spregiativa, per designare un atteggiamento d’intransigenza e d’intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose. Ma questo è proprio il contrario dello spirito laico, o, se si vuole, della “laicità” correttamente intesa, la cui caratteristica fondamentale è la tolleranza. Intendo parlare della tolleranza in senso positivo. Uno spirito fortemente religioso può anche essere tollerante ma generalmente è tale in senso negativo, intesa la tolleranza unicamente come sopportazione dell’errore altrui per ragioni di convenienza, per opportunità pratica, come minor male rispetto alla persecuzione violenta.
Nel dibattito molto vivace che ci fu tra i cattolici che sostenevano la scuola privata e i laici che, riferendosi all’art. 33 della Costituzione, difendevano la scuola di Stato, Bobbio diede un contributo illuminante. Una volta mi illustrò il suo punto di vista, sostenendo che la libertà di scuola, cioè quella di scegliere per i propri figli la scuola desiderata, è incompatibile con la libertà nella scuola, cioè con il pluralismo culturale, politico e religioso. Mi disse che il pluralismo non era praticabile nella scuola confessionale perché avrebbe compromesso la sua stessa identità e il progetto educativo che la caratterizzava.
Anche la «terza via» tra capitalismo e comunismo avanzata da Enrico Berlinguer, verso il quale Bobbio ebbe sempre la massima considerazione per la sua intransigenza morale, portò il filosofo a sostenere che non ci sono terze vie e che l’unica strada percorribile è quella della democrazia. Bobbio cercò costantemente di stimolare i comunisti a liberarsi dei loro demoni ideologici, anche se il lento, faticoso superamento del marxismo avvenne all’indomani del crollo del comunismo più che in seguito ai dibattiti intellettuali precedenti.
Alla caduta del Muro di Berlino, Bobbio ebbe il coraggio profetico di scrivere che le questioni poste dal comunismo non si potevano facilmente eludere perché il problema della diseguaglianza sociale non si sarebbe mai potuto accantonare.
Egli è stato lo studioso più serio, più scrupoloso e più originale che ho conosciuto. Ripeterei su di lui la stessa valutazione che egli diede su Einaudi e Salvemini, la cui serietà intellettuale emergeva nel frastuono culturale del primo Novecento.
Chi voglia capire qualcosa della cultura del Novecento italiano dovrà costantemente fare i conti con lui. È stato uno studioso così rilevante da non subire il fascino di lasciare una sua scuola. Tutti sono debitori a Bobbio di qualcosa e nessuno può considerarsi il suo erede. Forse proprio questo aspetto dà, anche ai non addetti ai lavori, l’idea della sua grandezza intellettuale che lo ha reso protagonista del dibattito filosofico del secondo Novecento. Quando Sandro Pertini lo nominò senatore a vita, colse nel segno, attribuendo il laticlavio a chi, come dice l’articolo 59 della nostra Costituzione, ha illustrato «la Patria con altissimi meriti».
Il Novecento è stato un secolo inquieto, al di là delle dittature opprimenti che lo hanno caratterizzato e Bobbio è stato il maestro di questa inquietudine intellettuale che non si placa mai perché è costante ricerca senza fine.
C’è stato chi ha evidenziato in lui una certa propensione a dare eccessivo credito ai marxisti, c’è stato chi ha rilevato come Bobbio sia rimasto di fatto prigioniero dell’«ircocervo» di cui parlava Croce e che avrebbe rappresentato la precaria sintesi tra giustizia e libertà; c’è stato infine chi ha contestato il liberalismo di Bobbio che sarebbe invece rimasto nell’ambito di una cultura rosselliana, se non gobettiana; tuttavia è fuor di dubbio che Bobbio abbia saputo analizzare con sottigliezza i problemi, rifiutando ogni semplificazione ideologica. Semmai sono stati spesso alcuni suoi allievi o sedicenti tali a darne un’interpretazione non adeguata che ha provocato una qualche confusione.
È stato un pensatore che ci ha insegnato e praticato il dubbio, la mitezza, il dialogo, la circospezione, la ponderatezza negli anni terribili dei manicheismi ideologici trionfanti.
Nel difficile rapporto tra politica e cultura egli ha rifiutato la subordinazione della seconda alla prima, riprendendo la lezione di Croce e di Benda (nel 1977 venne al Centro “Pannunzio” a parlare della Trahison des clercs), ma ha anche evidenziato come l’intellettuale non si possa chiudere nell’Arcadia del disimpegno.
Ha teorizzato così la «relativa autonomia dell’intellettuale rispetto alla politica», ponendosi «un po’ al di sopra della mischia», quasi riproponendo il vecchio «au dessu de la mêlée», un’espressione da tempo in disuso, che Bobbio non avrebbe mai fatto suo.
Negli anni bui del terrorismo la sua fermezza fu assoluta. Scrisse nel 1970: «Inseguimmo le “alcinesche seduzioni” della Giustizia e della Libertà: abbiamo realizzato ben poca giustizia e forse stiamo perdendo la libertà». Ed ancora: «Per chi è stato condannato dal tribunale della storia, il quale ha l’ufficio non già di far vincere il giusto ma di dare l’aureola del giusto a chi vince, non resta altro tribunale cui appellarsi che quello della coscienza. Di fronte al quale non basta, per farsi assolvere, l’essere rimasti fedeli a certi ideali. Occorre anche aver bene appreso quanto sia difficile e ingannevole, e talora inutile, il mestiere di uomini liberi».
Bobbio superò quella visione pessimistica anche perché la sua funzione intellettuale venne nel corso degli anni sempre più riconosciuta sia a livello italiano sia a livello internazionale.
Quando morì, ricevetti un laconico sms. Ero al Liceo “d’Azeglio” e fui io a dare l’annuncio della sua scomparsa.
Mi venne in mente ciò che scrisse Carlo Antoni sul “Mondo” per la morte di Croce e dissi che Bobbio sarebbe stato accolto dagli spiriti magni nel «nobile castello» immaginato da Dante.
Forse la mia frase parve retorica ad alcuni e forse non sarebbe neppure piaciuta a Bobbio, che era un uomo semplice e non amava gli elogi: il suo «Non chiamatemi Maestro» era un invito ricorrente nei suoi discorsi privati e pubblici.
A pochi giorni dalla morte lo ricordammo in un convegno promosso dal Centro “Pannunzio” con Marcello Gallo, Francesco Forte e Valerio Zanone, un incontro rimasto unico per il tono non meramente celebrativo, simile nello spirito sobrio e critico, direi davvero bobbiano, alla tavola rotonda organizzata al Circolo della Stampa di Torino nel 2014, con Luca Ricolfi, Piero Ostellino, Emilio R. Papa, in occasione del ventennale dell’uscita del volumetto Destra e sinistra.
Una delle ultime volte che lo incontrai (era di casa al Premio “Pannunzio” di cui però non volle essere insignito), parlandomi dell’indipendenza degli uomini di cultura mi citò Croce quando, durante la Grande Guerra, scrisse che l’Italia doveva poter contare sulla «serietà dei suoi scienziati» che era simile al «pudore delle sue donne». Un linguaggio antico per riaffermare la necessità, sempre attuale, di non «storcer la verità e non improvvisare dottrine».