1. A che punto siamo?
Orientarsi nello spazio e nel tempo è fondamentale per non perdersi. Che siamo sulla Terra, in Europa e in Italia è acquisizione che in prima analisi si può dare per definitiva.
Se però ci domandiamo in che epoca stiamo vivendo, scopriamo che a questa domanda possiamo dare almeno tre risposte.
1. La prima è che siamo nell’età moderna.
Per certi versi la risposta è insoddisfacente. La modernità e la modernizzazione sono la prima un’aspirazione, la seconda un progetto che a occhio e croce sono stati soddisfatti, se non completamente, in larga parte. Lo conferma che l’aspirazione alla modernità va spegnendosi e quanto alla modernizzazione, abbiamo forse sfondato qualche parete proprio nell’urgenza di attuarne il progetto. Voglio dire che, scavando nell’ignoto per procedere verso il futuro, siamo forse andati oltre l’ultimo traguardo consentito.
2. Su questa base possiamo dare un’altra risposta. Siamo nell’età che, in attesa di definirne i caratteri, possiamo chiamare con cautela post-moderna.
È ovvio che, se siamo post-moderni, viviamo in una sorta di realtà museale nella quale gli stessi oggetti che quotidianamente usiamo, come gli spazi nei quali ci muoviamo, raccontano che cosa sia stata l’età moderna. Questa si sarebbe conclusa con la nascita di quelle moderne istituzioni da cui è nato lo stato moderno e democratico.
Ci sono palazzi pubblici che raccontano questa storia, lo stesso assetto urbano delle maggiori città racconta come una città moderna non sia fatta solo di case e di negozi. C’è il palazzo del Comune, col sindaco e la giunta che insieme deliberano sulle attività da promuovere. C’è magari più di un Consolato. Ci sono cinema, teatri, scuole, luoghi di incontro. Ci sono però anche edifici che raccontano una storia che non è quella moderna. C’è possibilmente una bella chiesa in stile romanico, c’è o ci può essere una rocca con i ruderi di un castello. C’è ancora una piazza in cui nel medioevo i cittadini si riunivano in “parlamento”.
Ci sono usi nati in epoca lontana che ancora si mantengono e che con la modernità non hanno molto a che spartire. C’è chi fa un regalo al capo-ufficio quando è il suo compleanno. C’è chi chiede favori invece di domandare come mai non siano soddisfatti certi suoi diritti. C’è chi, invece di protestare sia pure a torto, brontola, sussurra, spettegola. Tanti rifuggono dalle loro responsabilità, tutti comportamenti che con la creazione di una stato democratico moderno fanno quasi a pugni.
Ed ecco allora la terza risposta.
3. Siamo ancora in quella che si chiamava un tempo età volgare, in contrapposizione a quella antica. Leggiamo sui libri che siamo diventati moderni, ma poi dobbiamo ammettere che questa narrazione non risponde a verità. Situazione complicata da un’evoluzione tecnologica che reso deboli certi modi della comunicazione a cominciare dalla scrittura.
Sta di fatto che esiste la mafia, che è una forma di malavita che si struttura secondo regole di carattere medievale. C’è chi comanda e chi, secondo una certa gerarchia, esegue, ovvero ordina ad altri un “lavoro” da eseguire e tutto passa attraverso un legame di “devozione” al “capo” dei capi che è “uomo d’onore”.
Il lavoro non si sceglie. Si cerca. E quando s’è trovato, se ne cerca un altro più remunerativo.
Nel medioevo c’erano gli scudi nobiliari sui quali erano disegnate le insegne della famiglia di chi guidava i soldati in guerra, oggi c’è il brand che è riprova del prestigio di cui gode un’azienda. C’era una nobiltà i cui componenti erano esentati dal pagare le tasse e oggi c’è chi le tasse le paga e chi può perfino evadere il fisco, sapendo di poter schivare il fastidio della galera patteggiando con lo Stato.
Infine oggi, come ai tempi di Carlo Magno, c’è un’aristocrazia di fatto composta dai commensali che siedono al tavolo dei grandi della Terra. E questi commensali organizzano ricevimenti e tavoli di lavoro nei quali trasmettono, senza parere, a chi di dovere quel che si deve fare e quello che non si può fare.
La domanda allora è: la celebrazione della modernità e della modernizzazione è servita a iniziare un percorso all’indietro, divulgando la leggenda di una “rivoluzione” compiuta, che in realtà s’è fatto di tutto perché abortisse proprio quando la creatura era vicina a nascere?
A questa domanda dobbiamo tentare di dare una risposta che sia almeno plausibile, tanto per capire a che punto siamo della nostra storia. E allora, tanto per entrare subito in argomento, ricorderò che si parla di democrazia imperfetta. Ma tutto quello che l’uomo fa è imperfetto. Per quel che mi riguarda dirò, citando Richard Rorty, che la democrazia è più importante della filosofia, che pure è stata la passione della mia vita. Questo sostengo perché mancando la democrazia, la filosofia diventa roba da spazzatura.
No, grazie! Grazie no!
2. Il laicismo
L’europeo è “tiepido” in fatto di religione soprattutto perché ha una cultura religiosa non adeguata ai tempi. Se ha dei dubbi, li schiva. Non discute volentieri, specie se cattolico, di questioni “più grandi di lui”. È persuaso in particolare che credere in Dio significhi credere che Dio esista, che esista un creatore dell’univero. Quando si rassegna all’idea che ci debba essere stato qualcuno che che ha dato vita al vario e affascinante mondo che si scopre ai suoi sensi, allora è convinto d’avere trovato la fede.
È una sciocchezza sia dal punto di vista teologico, sia da quello scientifico. Dal punto di vista teologico perché la fede non è credulità ma forza d’animo, capacità di decidere almeno per quel che riguarda la propria vita. In questo senso la fede può essere intesa come spinta alla vita, ansia di libertà e non è strettamente necessario, perché la si provi, professare questa o quella religione.
E allora che cos’ è la religione?
Dal punto di vista dell’antropologia, che è la scienza che studia i comportamenti dell’uomo che vive in collettività, la religione è un complesso di valori che si trasmettono con determinati simboli, in spazi adatti e predisposti allo scopo e secondo specifici rituali. La sua funzione è insegnare a pregare, cioè sentire di aspirare a qualcosa che fortemente desideriamo. Il rito che il sacerdote celebra durante una funzione religiosa suscita una tensione che induce a radicare in noi certi valori. È a quel punto che siamo invitati a trovare la fede se non ce l’abbiamo.
Tornando al punto di vista teologico, che è poi il più delicato, va detto che ridurre la fede a spirito di sacrificio, di rassegnazione, di obbedienza è snaturarla, cioè svilirla nella sua stessa natura. Voglio dire che per fede si possono affrontare sacrifici, si può provare rassegnazione e obbedire a una volontà “superiore”, ma tutto questo deve nascera da una scelta personale che non esclude situazioni di felicità, di divertimento, di compiacimento, di festa.
A insinuarlo, nell’ormai lontano Ottocento, è stato un grande scrittore italiano, Alessandro Manzoni che fa dire al Cardinal Borromeo, che rimbrotta quel povero mentecatto di don Abbondio: “Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e lo spavento altrui?”
La credulità non è una virtù. Non lo è mai stata. E non va confusa con la fede, sia essa religiosamente vissuta o meno.
Parliamo di uno scrittore che non ha mai fatto mistero di due cose. La prima d’amare il suo lavoro di scrittore al quale dedicò con impegno la sua vita. La seconda d’essere un uomo di fede.
E qui la domanda: la scelta di vivere nel mondo per realizzare i propri obiettivi, abbracciando lo stato laicale invece di quello monastico è qualcosa di riprovevole per chi viva religiosamente la propria fede? Evidentemente, almeno dal punto di vista di Manzoni, no. La realizzazione del sé nel mondo, per quanto sia stata in tempi andati giudicata generalmente quale difetto di vocazione, è comunque slancio, desiderio di partecipare alla vita sociale, facendo dono del proprio talento agli altri.
Quest punto è importante perché quel che catatterizza l’uomo moderno è il passaggio dalla cultura dell’obbedienza a quella della scelta responsabile. Chi è moderno denuncia la viltà implicita nella rinuncia a realizzare le sue giuste ambizioni, e non si piega ai voleri della famiglia che lo vorrebbe prete, quando lui ha altri progetti per la sua vita.
Non fu questo il caso di Manzoni che, a quanto sappiamo, fu posto nella condizione di operare le sue scelte in modo autonomo e indipendente. L’impegno posto nella sua attività di scrittore rivela tuttavia una persona scrupolosa e attenta, per la quale scrivere non è un ozioso passatempo ma un operare nel tessuto politico-culturale di una Milano chiarissimamente proiettata verso la modernità. Questo impegno ne fa un laico che vive nel mondo, consapevole delle reponsabilità che una scelta del genere comporta. Va da sé che ci si trovi anche davanti a un laicista, cioè uno pronto a difendere le ragioni profonde che lo hanno portato a operare le scelte fatte.
Che nel parlare comune “laico”, “laicismo”, “laicista” abbia finito con l’avere tutt’altro significato è servito solo a confondere le idee a quanti, non sapendo che fare della propria vita, hanno cercato nella religione certezze utili a mettersi l’anima in pace, rinunciando di fatto a una maturazione sia sul piano civico, sia su quello politico, sia paradossalmente su quello religioso. È l’infantilismo dei popoli a creare preoccupanti rigurgiti di medioevo.
Laico è l’uomo moderno, capace di autonomia nello scegliere, perfino quando si tratti di abbandonare lo stato laicale per quello religioso. E qui va detto che i migliori sacerdoti sono spesso quelli che, prima di vestire l’abito, hanno vissuto nel mondo e conosciuto la vita.
Laicista è chi difende questo diritto a operare autonomamente le proprie scelte perché sa che altrimenti ci si perde e si vive una vita difficile, se non impossibile.
Il medioevo è stato caraterizzato dalla cultura dell’obbedienza. Per meglio dire, nel medioevo la cultura ufficiale, cioè quella che si tutelava e si divulgava, consisteva nell’insegnare che l’obbedienza fosse una virtù. Eppure c’era chi esercitava il comando. Ma sulla cultura del comando vigeva una sorta di congiura del silenzio. Fu Machiavelli chi per primo illustrò nel Principe che cosa significhi comandare e, siccome vigeva ancora la cultura dell’obbedienza, quel suo libriccino apparve a tanti scandaloso e a Machiavelli si attribuì la paternità del libertinismo.
Laicista non è chi è anticattolio o anticristiano o antimaomettano. Il laicista si fa però all’occorrenza nemico della Chiesa quando la Chiesa sembra venir meno a quell’equilibrio e a quella saggezza, a cui secoli fa l’aveva richiamata Dante Alighieri. In particolare il paternalismo con cui si prendono per mano le “pecorelle smarrite”, impedendo loro di trovare la strada che pure cercavano, irrita il laicista che, nel caso in cui sollevi qualche obiezione può sentirsi rispondere da un sacerdote vecchio stile “pregherò per lei”. La verità è che ognuno prega per sé, non per egoismo, ma perché la preghiera ha senso solo quando si sia effettivamente capito che cosa si vuole, che cosa veramente si desidera con tutta l’anima, alla quale è restituito in quel momento, un candore che non sospettavamo d’avere. E non è un caso che situazioni di autentica disperazione possano indurre chiunque di noi, atei compresi, a pregare.
S’è ragionato ultimamente nel nostro paese della legge 194 sull’aborto. Quando la legge fu varata io mi augurai che ci si desse da fare per scongiurare il ricorso a una misura estrema ma in certi casi necessaria. Mi aspettavo cose che non sono state fatte come la distribuzione gratuita degli anticoncezionali, che sono tanti e di vario tipo, un minimo di educazione sesssuale, un processo delicato anche perché la maleducazione sessuale nasce proprio in famiglia, con genitori che non sono in grado di educare i figli su questa delicata e importante materia. Si è fatto su questo piano poco e niente e, dal mio punto di vista – che esprimo con nettezza ma senza pretendere che venga condiviso – non può avere alcuna utilità il paternalistico rimbrotto tardivo e reso, malgrado qualsiasi buona intenzione, ipocrita dal fatto d’avere lasciato una donna a sbrogliare da sola problemi a volte più grandi di lei.
Per tornare a Manzoni, che era una persona seria, il suo Innominato ritrova da sé la strada che avrebbe voluto percorrere. Non c’è nessuno che lo ammonisce, lo redarguisce, lo compatisce paternalisticamente, forse perché se avesse avuto tra i piedi qualcuno così, la sua “conversione” sarebbe stata impossibile.
Si dirà che Alessandro Manzoni fu però scrupoloso nell’osservare puntualmente i precetti della religione. Aveva anche un padre spirituale al quale si rivolgeva per risolvere certi suoi dubbi. Fu questa però una sua libera scelta che ci pare contrasti significativamente con una certa indifferenza e pigrizia di tanti “fedeli”, che sono poi quei fedeli che risolvono la fede nella semplice credulità.
Se professo una religione, devo informarmi circa gli impegni che implicitamente assumo. Non è pensabile che vi siano “fedeli” che non sappiano neppure seguire la Messa o che non conoscano, per limitarsi alla religione cattolica, la differenza tra apostoli e evangelisti.
3. Ben venga la dissacrazione del potere
Il potere ha una sua “sacralità”?
Io penso di no. È esercitato, perfino quando sia “assoluto”, da un essere umano con due piedi, due gambe e una testa. Più si presenta vestito di tutto punto, e più suscita in me una qualche divertita ilarità. Oggi per fortuna portantine, cortei, baciamani, inchini e livree non ci sono più, anche se non mancano le persone che ne hanno una qualche nostalgia, per cui la famiglia Windsor nella Tv di Stato italiana spopola forse più di Amadeus e Fiorello messi insieme. Tutto questo è anacronistico e il bello è che farne una colpa agli Windsor non ha alcun senso, dal momento che la vita privata di ciascun membro della Royal family è oggetto di gossip che, senza esagerazione, può dirsi planetario e, quanto allo spessore morale e culturale di questo chiacchiericcio, non si eleva tanto al disopra di quello che accompagna la vita della moglie di un sindaco di un paesetto del nostro vecchio e amato Sud.
In queste poco velate contraddizioni si nasconde la nostalgia del passato e l’impossibilità di rinverdirlo.
Su questa impossibilità mi piacerebbe che ci si interrogasse responsabilmente. Io credo che l’impossibilità di tornare al medioevo stia soprattutto nel fatto che non c’è più l’uomo del medioevo. Senza pensare a come Ivanhoe irrompe sul teatro della giostra, presentandosi sotto gli occhi del padre che non lo riconosce, in qualità di cavaliere direredato, si cercherebbero oggi invano quegli anonimi eroi che strapparono palmo a palmo al bosco spazi di terre da coltivare per garantire alle loro famiglie il necessario per sopravvivere pur tra mille disagi e patimenti. A loro noi dobbiamo quel benessere di cui oggi si dispone.
Noi, che andiamo in panico se smarriamo il cellulare o se, per un black – out, stiamo un giorno senza corrente elettrica, non sapremmo fare quello che l’uomo medievale ha saputo fare.
A ciascuno la sua epoca nella quale, che piaccia o meno, dobbiamo comunque vivere.