Valentino Fossati, con Il sogno (Capire Edizioni 2022, Prefazione di Maurizio Cucchi), si lascia alle spalle la poesia in versi imboccando la strada – non certo più agevole – della poesia in prosa. Il risultato è questo poemetto suddiviso in due «Tempi» di quattro capitoli ciascuno. Sorprende fin da subito il lettore la filigrana stessa del linguaggio, sempre teso e come in procinto di implodere. Gli episodi, frammentati e sghembi, si sviluppano a loro volta su uno sfondo storico a tratti ben riconoscibile (sequestro Moro, strage di Bologna), che dagli anni Settanta del secolo scorso giunge all’inizio del nuovo millennio. Ma il rombo “corale” della Storia risulta ovattato e inghiottito da un altro frastuono, impercettibile all’esterno, quello appunto dei singoli sconfitti, dei prostrati: dalla perdita del padre, dalla nube dei ricordi – la cerchia famigliare, un amore fantasticato e irrealizzabile – come pure da scelte suggerite dalla disperazione. L’innominato protagonista è ad esempio caduto nell’alcolismo, nel vortice della droga e nella trappola di frequentazioni per nulla raccomandabili. La figura del padre, invece, acquisisce progressivamente una dimensione cristologica (1), proiettando una luce salvifica sull’intera famiglia, che teme tuttavia di perderlo, o forse non lo ha mai avuto con sé per davvero. Il tempo, in quest’opera, è un eterno presente nel quale scorrono, a strappi e flash-back, i pensieri e le immagini che l’io poetico filtra e trasforma in qualcosa di inafferrabile, di fantasmatico. Il sogno fa emergere i fossili di un perpetuo straniamento: dal lavoro in ufficio, dai legami amorosi, dall’ingenua fiducia che è ormai soltanto un ricordo. Tutto si veste di insensatezza. La poesia, alveare di parole, organizza nel libro di Fossati il proprio discorso, come accennavo, all’insegna di una straordinaria tensione, emotiva e sintattica. Ogni dettaglio sembra spezzettarsi sotto le folate di frasi brevi, elencatorie, che prendono, lasciano e riprendono come una risacca, di pagina in pagina, quella che potremmo chiamare la scena archetipica: la famiglia riunita nell’atmosfera dorata del compimento e altresì nella consapevolezza, inconfessabile, che il padre non resterà a lungo in mezzo ai suoi. Il testo snocciola luoghi e date precise, ma poi tutto si sfilaccia in una dolente irrealtà. Il duplice sogno, dell’io e degli eventi, si fonde in un sogno ulteriore, quello della parola scritta. Il riferimento ad Attilio Bertolucci e alla Camera da letto (Primo tempo, IV) non deve fuorviarci, poiché in Fossati la voce è sempre ondivaga, non dà vita a visioni “pacificate”, nemmeno in via ipotetica, e il male non allenta mai la sua presa, anche quando parrebbe il contrario. Lo stile del nostro autore, a ben riflettere, congiura in tal senso: la costruzione paratattica del periodo e il ricorso metodico agli infiniti fungono da correlativo formale del mauvais rêve dell’esistenza. Così come gli insistiti tratti realistici non eliminano la sostanza onirica e visionaria di questo poemetto, allo stesso modo le aperture all’Oltre, alla sfera del divino e alla condivisione di sinceri affetti non aboliscono – anzi rendono ancor più crudele – il tetro orizzonte che ne alimenta le radici. Azzardo infine, a titolo di minima genealogia letteraria del nostro poeta e del suo Sogno, il paragone con certi diari anonimi della Grande Guerra in cui si delinea, in un fraseggio allucinato e incalzante, il memorabile autoritratto di anime scorticate.
1) «Non esiste minaccia, s’addensa il mezzogiorno. Il padre a capotavola spezza il pane croccante, porge vino abbondante ai commensali» (Primo tempo, II); «La pagnotta gigante, il padre la afferra ne aspira il profumo; la accarezza, prima di spezzarla in due. […] uomini intorno come tante ombre. Spezza, distribuisce: profondissima visione, sacra. Avrebbe dato il suo sangue per ricevere quel pane, per essere lì di nuovo, su quel prato. Il padre lo intuisce e solleva lo sguardo, un attimo soltanto, si fissa ai suoi occhi» (Secondo tempo, I).