Abitavamo allora sulla riva destra del Po, nella zona precollinare sovrastante il Motovelodromo. Qualche minuto dopo le 17 di un pomeriggio grigio e piovoso stavo giocando con un pneumatico in miniatura, nero e lucente, molto solido, che mi era stato regalato da un amico di famiglia, il geniale imprenditore astigiano Piero Dusio, presidente della Juventus dal 1942 al ’47 ed inventore (con altri) delle mitiche auto sportive Cisitalia. A un tratto mia madre disse: «Che cosa sarà questo rumore? Hai sentito?». Sì, l’avevo sentito, abbastanza chiaramente, ma non vi avevo fatto caso. «L’ho fatto io con la gomma». Davvero pensavo di averlo prodotto io stesso quel rumore, una specie di stridente scricchiolìo, facendo rotolare e scivolare il minipneumatico sulle lucide piastrelle del pavimento dell’ingresso.  «No, no, veniva da fuori. Chissà cosa sarà stato».  Che cosa era stato lo venimmo a sapere di lì a poco, perché la notizia si sparse come un lampo in città, anzi nel mondo: l’aereo che trasportava la squadra di calcio del Torino, reduce da una partita amichevole in Portogallo, a causa della nebbia si era schiantato contro la base posteriore della Basilica di Superga. Nella sciagura perirono tutti: giocatori, tecnici, accompagnatori, giornalisti e il personale di bordo. Fu così che diventai un tifoso del Torino, un granata. Ma non per ragioni emotive, di istintiva partecipazione al dolore collettivo per il tragico evento, per una sorta di solidarietà morale e psicologica. Diventai granata – non d’un tratto, ma gradualmente nel tempo –  perché dal giorno della sua distruzione ebbi coscienza dell’esistenza della squadra, sentendone parlare come per la prima volta. Divenni granata – devo confessarlo – anche per spirito di contraddizione, perché i componenti maschili della famiglia erano prevalentemente juventini (mio padre, suo fratello, mio cugino; solo il fratello di mia madre era blandamente torinista, ma non penso di essere stato influenzato da lui) e mi sembrava giusto scegliere un’altra bandiera. Ma soprattutto divenni granata, da quel giorno fatale, perché acquistai progressivamente consapevolezza, sulla scorta di quanto udivo e in séguito venivo a sapere sempre meglio, non tanto che il Torino, via via assurto alla mitica dimensione del Grande Torino, era stato annientato a Superga, ma che il Torino – in sé, ontologicamente – era grande. E io, infantilmente, volevo sostenere una squadra grande, che per me in realtà non era mai morta, non era mai stata distrutta. Solo molti anni dopo fui in grado di comprendere quale immane tragedia sportiva umana sociale si era consumata alle ore 17,05 del 4 maggio 1949: quel giorno non potevo esserne consapevole, avevo compiuto quattro anni giusto due mesi prima.