La scrittura febbrile di Céline, violenta ed espressionista, diventa in ‘Morte a credito’ lo specchio della trama, l’anima disperata della narrazione. Il lettore ne viene travolto, conquistato. In un racconto che procede tra stacchi temporali e spaziali, scene distinte, sequenze quasi cinematografiche, la lucida originalità della cifra stilistica è ciò che lega il tutto e che meglio restituisce l’atmosfera cupa, drammatica, della vita piccolo borghese nella Parigi della Belle Epoque. Le espressioni gergali, il lessico ricco e insieme popolare, il flusso di coscienza, i brutali neologismi, la punteggiatura che diventa parte del narrato, tutto contribuisce a restituire, seppure filtrato in chiave espressionista dall’occhio dell’autore, il clima di un periodo ricco di promesse e di illusioni, ma anche di amare lotte per la sopravvivenza quotidiana, fino alla consumazione di vite e casi umani che tutto hanno dilapidato e perduto, e ai quali, esaurite le potenzialità economiche ed esistenziali concesse, la morte deve essere apparsa come una liberazione, un estremo residuale credito di fiducia verso un futuro che non ha saputo mantenere, per molti, ciò che aveva promesso o lasciato intravvedere. Nessuna politica, solo anarchica vita privata, senza garanzie, senza stato sociale, senza attenzione per l’infanzia, per i deboli, per le ingiustizie. Questo erano le radici della nostra Europa, fino a cento anni fa. Rileggere oggi le allucinate ma sincere ‘cronache’ di alta letteratura che Céline ci restituisce attraverso i suoi romanzi maggiori – ‘Viaggio al termine della notte’ e ‘Morte a credito’ –  significa immergersi per il tempo della lettura nella cultura e nelle tragedie del XX secolo. E inevitabilmente chiedersi quanto di quei drammi umani sia definitivamente superato, quanto sia destinato a riproporsi seppure in forme diverse nei corsi e ricorsi della storia, e quanto infine faccia parte dell’individuale percorso esistenziale e dunque intrinseco alla dimensione privata e a quella pubblica di ogni generazione.