In questi mesi di isolamento forzato, pensare alla letteratura di
viaggio è una vera e propria boccata d’ossigeno, in quanto si tratta
di una metafora della nuova frontiera della scrittura contemporanea.
Pure io mi sono rifatto a essa, inizialmente in modo didascalico, ma,
in seguito, cercando di intercettare l’altra corrente stilistica
contemporanea: la scrittura iper reale. Punti di riferimento e di
intersezione di queste correnti letterarie sono la migrante somala di
seconda generazione Igiaba Scego e lo scrittore triestino, che ha
vissuto e insegnato a Torino, Claudio Magris. La prima, forse, è una preferenza personale, perché mi identifico nella mia coetanea somala che è nata e vive a Roma e che ha scelto di
scrivere in italiano, la sua lingua d’adozione, per calarsi meglio
nella realtà quotidiana capitolina, rivalutandola nei suoi vari
registri espressivi. Se, dapprima l’italiano la faceva sentire
straniera, perché non era la lingua succhiata con il latte materno,
poi l’ha riscoperta e valorizzata come strumento d’eccellenza per
capire e scoprire, attraverso la scrittura, la multietnica capitale
italiana in cui vive e studia, passeggiando per i mercati rionali,
sentendo gli speaker radiofonici, innamorandosi. La Scego scrive in un italiano estremamente preciso e realistico, rivelando una capacità mimetica iper reale, soprattutto nei dialoghi
crudi e serratissimi e nelle vivide descrizioni. In questo senso, la
somala si richiama a quello che Raffaele Donnarumma, docente di
letteratura italiana all’Università di Pisa, chiama iperrealismo, sia
che nella sua opera più significativa “Oltre Babilonia” scriva del
dittatore di Mogadiscio, Siad Barre, sia che racconti dei
desaparecidos argentini di Buenos Aires. Senz’altro quest’autrice iper globalizzata si riconosce più in Pier
Paolo Pasolini che in Roberto Saviano, il quale ha dato l’incipit alla
nuova letteratura iperreale. Se, infatti, Pasolini scriveva: “Io so,
ma non ho le prove”, Saviano con “Gomorra”, ora addirittura diventato
un film, ha fatto presuntuosamente capire: “Io so e ho le prove”,
dando inizio al caso letterario, studiato da Donnarumma, che ha
scritto il suo saggio sulla letteratura iper reale, prima dello sbarco
al cinema di “Gomorra”. Invece i libri dei migranti di seconda generazione sono romanzi che
scoppiano dionisiacamente e spontaneamente, sfruttando la forza di un
linguaggio dialogico sperimentale e iperrealistico, unendo mondi già
globalizzati, soprattutto in letteratura, non hanno più confini né
storici, né geografici. Eppure l’ellenismo in Somalia, come in tutta l’Africa subsahariana,
non è mai arrivato. In questo caso, non si pone, dunque, la domanda
fondamentale che Claudio Magris teorizza in “Itaca e oltre”, di fronte
ai viaggi di altissima letterature come quelli di Ulisse e di Dante,
ovvero se il l’itinerario di un cammino sia un’esperienza circolare
oppure infinita. Da una parte si mette in evidenza il nietzschiano
eterno ritorno dell’uguale, dall’altra il percorso verso un termine ad
quem, figlio dell’Illuminismo. Igiaba Scego e l’italo-algerino Amara Lakhous, che ambienta le sue
narrazioni tra Roma e Torino, si sono perfettamente integrati, sia
esistenzialmente che letterariamente. Non hanno, quindi, la nostalgia
dell’esule di Ugo Foscolo in “A Zacinto” che nel sonetto è dolore per
la distanza dalle sue radici classiche. Piuttosto nella loro scrittura
si intravede un neorealismo dal sapore pasoliniano e una parodia
iper globalizzata della società, partendo dall’esempio del postmoderno
Carlo Emilio Gadda. Tuttavia la letteratura italiana ha maestri imprescindibili del dolore
causato dalla lontananza come l’immortale Dante Alighieri, che in
esilio a Verona, si prefigura di incontrare in Paradiso il compatriota
fiorentino Cacciaguida e scrive le memorabili terzine: “Tu proverai si
come sa di sale/lo pane altrui e come/è duro calle lo scendere/ e il
salir per l’altrui scale”. Ancora più significativo per la letteratura
di viaggio sono le parole dell’Ulisse dantesco: “Fatti non foste a
viver come bruti/ Ma per seguire virtute e cagnoscenza”. Questi versi
spronano chi vede nel viaggio un percorso di maturazione e scoperta
come me, che ho cominciato a scrivere quando mi sono trasferito nella
città metropolitana di Chieri, importante libero comune del Medioevo. Come la Scego sono restato nella realtà che conoscevo, ma mi sono
proiettato indietro nel tempo: nella vita della Contessa di
Castiglione sono presenti i grandi personaggi del Risorgimento
italiano, rivissuti dal suo punto di vista, né L’usuraio di Chieri
viene affrontata la reazione di un personaggio medievale di fronte
alla morte, né I quattro massoni di Chieri sono addirittura quattro i
protagonisti che si confrontano con il nascente Illuminismo, né Il
fratello del sultano si ha la maturazione di un personaggio sospeso
tra Cristianesimo e Islam, nel giallo Sulle tracce di Fra Meo ritorno
al Medioevo, ma allargo l’orizzonte da Chieri all’Europa: in questo
romanzo mi sono lasciato trasportare dal genere noir, molto di moda
adesso, periodo in cui sono tutti giallisti. Penso che il periodo
attuale passerà alla storia della letteratura appunto come il periodo
del noir, il giallo psicologico. Un altro emblematico esempio della letteratura di viaggio italiana è
il deportato dal campo di concentramento di Fossoli al lager di
Auschwitz, Primo Levi, che in “Se questo è un uomo”, in “La tregua” e
né “I sommersi salvati” mette per iscritto, con grande maestria, un
tragico percorso esistenziale che si conclude con il suicidio, una
volta che lo scrittore torna a Torino: una parabola che rappresenta un
viaggio anti turistico, per eccellenza al pari di quelli di Magris in
“Danubio” e “Microcosmi”. Poco prima che morisse, ho incontrato a Roma l’anziano scrittore
Alberto Bevilacqua, che non conoscevo, ma di cui nutrivo stima anche
perché era uno dei pochi scrittori in Italia che viveva solo di
letteratura; gli autori comuni non vivono con il mestiere di scrivere.
Con un passato da giornalista, Bevilacqua, amico di Flaiano, Montale e
Pasolini, pur apprezzando i miei romanzi, mi ha consigliato di
abbandonare il genere storico per scrivere storie più introspettive e
più vendibili. E mi ha regalato “Un dramma borghese” di Guido
Morselli, anch’esso uscito in versione cinematografica come Gomorra. Così, la protagonista del mio romanzo più recente “Il lamento di
Marianna” è una ragazza che viveva nel Duemila, che ho conosciuto a
fondo, ma devo ammettere che è stato più difficile immedesimarmi in
lei che avevo davanti agli occhi, piuttosto che in personaggi di
secoli fa. Anche in questo caso è un’esistenza eccezionale e lo
scrittore deve appunto avere occhio per situazioni fuori
dall’ordinario e calarle nel particolare, il solo che suscita
emozione. Questo romanzo un’autofiction iper reale che attinge a piene
mani dal saggio “Iperrealtà” del già citato Raffaele Donnarumma e dal
“Padiglione d’oro” del giapponese Yukio Mishima, come Morselli morto
suicida. Peccato che il nuovo editore non abbia riportato nell’indice i
sottotili: “Il sottofondo musicale”, “Il sottofondo letterario”, “La
pasta alla Norma di una madre”, “L’autofiction di un fidanzato”,
“Disincanto e disfacimento”, “Le briciole di un amore”,
“Documentazione vissuta di un suicidio”, “La trasfigurazione di
un’esistenza”, “L’investigazione interiore”, “L’angoscia di un legame
madre figlia”, “Elaborazione di un lutto”, “Il tempo della rinascita”,
“Altri incidenti di percorso”, “Le possibilità delle esistenze”.
Perché testimoniano una mia travagliata svolta stilistica in cui, per
marcare la differenza dalle mie precedenti docufiction storiche non
uso mai il tempo verbale passato, ma il presente. Ho sognato davanti al computer di abitare altre vite e ho cercato di portare chi mi leggerà dentro il mio sogno, attraverso metafore che
sono un mezzo per entrare in un’atmosfera onirica. Ho vissuto uno
stato prolungato di trance, più che nei precedenti romanzi che
tuttavia ho scritto, anch’essi di getto, assumendo una disposizione
ossessiva nel senso che mi sentivo sempre sotto torchio e non potevo
staccarmi dalla pagina. In generale uno scrittore deve acuire lo sguardo, osservare da voyeur
sentimenti, comportamenti, gusti, ambienti, gioie e dolori. Ma, in
effetti il romanziere è un tipo strano che preferisce guardare
piuttosto che fare. Italo Svevo diceva:”La vita o si scrive o si
vive”. Luigi Pirandello: “Io sono colui che scrisse non colui che
visse”. Cesare Pavese: “Ho imparato a scrivere, non a vivere”. Da parte mia, nel romanzo che sto scrivendo, “Mal d’Africa” torno alla letteratura come viaggio di scoperta. Sarà un biglietto da visita per
gli africani che mi accoglieranno nel loro continente e anche un’
autofiction iperreale e di viaggio. Tornerò arricchito, ampliando le
mie docufiction piemontesi per poi, sperò, riuscire di nuovo a
cambiare genere letterario.
Articoli recenti
Categorie
Archivio
- Ottobre 2024
- Settembre 2024
- Agosto 2024
- Luglio 2024
- Giugno 2024
- Maggio 2024
- Aprile 2024
- Marzo 2024
- Febbraio 2024
- Gennaio 2024
- Dicembre 2023
- Novembre 2023
- Ottobre 2023
- Settembre 2023
- Agosto 2023
- Luglio 2023
- Giugno 2023
- Maggio 2023
- Aprile 2023
- Marzo 2023
- Febbraio 2023
- Gennaio 2023
- Dicembre 2022
- Novembre 2022
- Ottobre 2022
- Settembre 2022
- Agosto 2022
- Luglio 2022
- Giugno 2022
- Maggio 2022
- Aprile 2022
- Marzo 2022
- Febbraio 2022
- Gennaio 2022
- Dicembre 2021
- Novembre 2021
- Ottobre 2021
- Settembre 2021
- Agosto 2021
- Luglio 2021
- Giugno 2021
- Maggio 2021
- Aprile 2021
- Marzo 2021
- Febbraio 2021
- Gennaio 2021
- Dicembre 2020
- Novembre 2020
- Ottobre 2020
- Settembre 2020
- Agosto 2020
- Luglio 2020
- Giugno 2020
- Maggio 2020
- Aprile 2020
- Marzo 2020
- Febbraio 2020
- Gennaio 2020
Contatti
Centro Pannunzio
Associazione culturale libera fondata a Torino nel 1968
Via Maria Vittoria, 35 H
10123 Torino (TO)
Tel 011 8123023
redazione@pannunziomagazine.it
www.centropannunzio.it