“Almanacchi, almanacchi nuovi, lunari nuovi !”, “Anniversari nuovi” !: meditiamo sempre con il “Dialogo” di Giacomo Leopardi. Ma che cos’è “lunario”, o “anniversario”, e che cosa non lo è ?

C’ è, sovente, la corsa agli almanacchi, alla riscoperta di coincidenze cronologiche e storiche ! Dopo i 500 anni dalla morte di Leonardo; ci sono Raffaello, e Amedeo Modigliani, e poi Ungaretti con Federigo Tozzi. Nel 1920, cade la morte del sociologo Max Weber, profeta della crisi e del potere carismatico. Ma oltre gli ebdomadarii e le effemeridi di erudita evidenza, non può forse costituire  “anniversario” degno di memoria un evento, un accadimento, un sincronismo di opere, come la coincidenza di pensieri e prodotti artistici, fulgidi nel firmamento del “possesso per sempre” ? Per esempio, tra l’arte di Paul Klee ( Berna 1879 – Clinica di Muralto 29 giugno 1940 ) e le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke ( Praga 1975 – Montreux 1926 ) ? Due autori che, proprio qui, nel 1920, si incrociano e corrispondono mirabilmente ?

A fianco del più noto e commentato Angelus Novus, d’intorno al 1920 si staglia l’altro intenso  capolavoro, Prima della neve, di Paul Klee, che in quell’anno conosce Rilke. “La verità vera giace prima nel fondo invisibile” – “Dietro la varietà delle interpretazioni, c’è un ultimo segreto e la luce dell’intelletto si spegne miseramente”: così annota e sancisce Paul Klee nel proprio pensiero poetante. La vita prima della vita è in Rilke, prima che in Klee. Come nella Seconda Elegia “il puro, discreto, sottile / lembo umano” prefigura l’ “esorbitante esistenza mi scaturisce dal cuore”, della Nona Elegia ( cfr. Peter Szondi, Le “Elegie duinesi” di Rilke. Seguito da “Elegie duinesi”, SE, Milano 2017, p. 133. – Peter Szondi, nato a Budapest nel 1929 e finito nella Senna, come l’amico Paul Celan, il 1971, è autore della Teoria del dramma moderno e della Poetica dell’idealismo tedesco, ed. it., Torino 1972 e 1974, oltre a svariati saggi influenzati da Gadamer e Benjamin ed alla Introduzione all’ermeneutica letteraria, ed. it., Pratiche, Parma 1979 ).

 E nella Terza Elegia: “Vedi, noi non amiamo come i fiori, traendo da un unico anno; amando alle braccia ci sale un succo immemorabile. O fanciulla questo: in noi non amammo un’unica cosa, una cosa futura, ma l’immenso fermento, non un singolo figlio, ma i padri che come frane di monti giacciono al fondo; gli alvei asciutti di madri antiche – ; tutta la landa silente sotto il fato plumbeo di nubi o terso – ; questo, fanciulla, fu prima di te” ( cfr, pp. 58 e 168-169 della edizione citata, che riprende, con testo a fronte, la traduzione einaudiana di Anna Lucia Giovotto Kundler del 1995 ). Ancora, in Ottava Elegia: “O beatitudine della minuscola creatura / che nel grembo che la portò sempre rimane; / e la felicità del moscerino che saltella dentro ancora / anche quando ha nozze; poiché grembo è tutto” ( pp. 95 e 193 di op. cit. ).”Denn Schooss ist Alles”.

Il “grembo” e l’ “Angelo”: altro archetipo comune, che campeggia nella produzione dei due autori è l’Angelo. “Ogni angelo è tremendo”, canta Rilke nella Prima e Seconda Elegia ( pp. 34-35 e 125-126 della op. cit. ). “Ein jeder Engel ist schrecklich” ( Prima Elegia, v. 7 ).“Chi siete?” – Risponde l’inno dell’angelo nella seconda strofe della Seconda Elegia: “Opera prima felice, beniamini voi del creato, / cime, crinali di monti all’aurora / dell’intera creazione – polline di fioritura divina, / articolazioni di luce, varchi, scale, troni, / spazi di essenza, scudi di delizia, tumulti / d’un sentire turbinoso, rapito, e ad uno ad uno, d’un tratto / specchi: che la bellezza effluita / riattingono in sé, nel volto ch’ è proprio”. Dove Rilke riprende la Summa Theologica di Tommaso d’Aquino: “La natura dell’angelo è come una sorta di specchio che mostra la somiglianza con Dio”   ( vol. IV,  220 dell’edizione tedesco-latina di Salzsburg – Leipzig. 1936 ). Ma l’alleggerisce e traduce, nella Seconda Elegia: “Afferrano gli angeli / solo del proprio che da loro promana / o talora, per una svista quasi, vi s’insinua un poco / dell’essere nostro ?” Sbocciare vuol dire “sbocciare in infinito” ( Ottava Elegia nel commento di Szondi, cit., p. 74 ). “Chi, s’io gridassi, mi udrebbe mai dalle schiere degli Angeli ? ( Prima Elegia, pp. 157-160 ) : qui dove Rilke si fortifica con le memorie testuali di Gaspara Stampa, frutto della predilezione per il Rinascimento e delle esperienze del Viaggio in Italia: “Hai pensato abbastanza a Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla, / perduto l’amato, senta all’esempio accresciuto / di questa che amò: che io possa eguagliarla? / Non devono questi, i più antichi dolori, / darci infine più frutto ? Non è tempo che amando /resistiamo all’amato, ce ne liberiamo, tremanti:/ come la freccia resiste alla corda, per essere, raccolta / nel balzo, più di se stessa. Perché non v’è luogo al restare./ Voci, voci. Odi mio cuore, come solo udirono / i santi: sì che l’immenso richiamo / li levò dal terreno; ma essi, impossibili, / rimasero in ginocchio e non se ne curarono: / Così erano in ascolto. (..) Ora si mormora a te da quei giovani morti. / Ove tu entrasti, in chiese di Napoli / e Roma non ti parlava pacato il loro destino ? / Oppure, a te s’affidò un’iscrizione, sublime, / e di recente la lapide in Santa Maria Formosa.” ( Prima Elegia, vv. 45-65 ).

Il poeta, che influenzò Heidegger per l’”essere per la morte”, canta la “memoria” storica dell’Italia e la “memoria” vitale custodita dall’Angelo, nella Quinta Elegia: “ Angelo ! O raccogli il minuto fiore, l’erba salutare. / Procura un vaso, serbala ! Ponila tra le gioie che a noi / non sono aperte ancora; esaltala in un’urna delicata / con lo slancio di una scritta snella, di fiori adorna: ‘Subrisio Saltat’” ( vv. 58-61 in op. cit., pp. 176-177; e Perché i poeti ? In Martin Heidegger, Sentieri interrotti (“Holzwege”), ed. Chiodi, Firenze 1968, , pp. 247-297 ). Mentre la Settima Elegia canta i mattini d’estate e le stelle ( vv. 18-29 ), – “Questo si ergeva una volta tra  uomini, / si ergeva in mezzo al destino, il nientificante, in mezzo / al non sapere verso-dove si ergeva, come cosa che è, e a sé / piegava le stelle da cieli resi sicuri. Angelo, / a te ancora indico, là! Nel tuo sguardo / infine si erga salvato, finalmente ora eretto !/ Colonne, piloni, la Sfinge, lo slancio saldo del duomo, / grigio, su dalla città fatiscente o straniera. // Non fu miracolo ? Angelo, o stupisci, siamo noi questo, / noi, o tu grande, narralo che fummo da tanto, il mio fiato / non basta alla celebrazione. Così tuttavia non abbiamo / mancato gli spazi, prodighi e non perituri, questi / nostri spazi. ( quanto mirabilmente grandi saranno, / ché millenni del nostro sentire non li ricolmano )./ Ma una torre fu grande, vero ? Lo era, o angelo – / grande anche di contro a te ? Chartres fu grande -, e la musica / giunse ancora più oltre e ci sormontò. (..) Angelo, se pur ti chiamassi ! Tu non vieni. Poiché il mio chiamare / è un donarsi che ti tiene lontano; contro tanta / corrente non riesci a incedere. Un braccio / proteso è il mio grido. E la mia mano che in alto / si apre per afferrare a te innanzi / aperta rimane , a monito e scudo, / oh inafferrabile, aperta” ( vv. 67-92 in op. cit., pp. 186-189 ).

E nella Nona Elegia si ridimensiona il “nome” delle cose, a guisa di “pseudocondetto” o “stenogramma” convenzionale, di fronte all’incanto del sentimento: “Anche il viandante, dalla china, lungo il ciglio del monte, /  una manciata di terra non reca, a tutti indicibile, giù nella valle, / ma una parola da lui conquistata, pura, la gialla e azzurra / genziana. Siamo qui forse per dire casa, / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra, – / al più, colonna, torre… ma per dire comprendilo, / per dire così come persino le cose intimamente mai / credettero d’essere. Non è astuzia segreta / di questa tacita terra, quando gli amanti sollecita, / sì che nel loro sentire tutto, ogni cosa, s’incanta ?” ( vv. 28-37 in op. cit., pp. 194-196 ). Mentre s’innalza dal mondo la lode all’Angelo ( vv. 52-78 ). “Loda all’angelo il mondo, non l’indicibile, con Lui / vantarti non puoi d’avere superbamente sentito; nell’universo / dove sente sentendo di più, sei inesperto. Mostragli/ allora il semplice, di generazione in generazione formato, / che come nostro vive, presso la mano e nello sguardo. / Digli le cose. Sosterà più stupito; come tu sostasti  / presso il cordaio a Roma e il vasaio sul Nilo. / Mostragli quanto possa esser felice una cosa, quanto innocente e nostra, / come persino il dolore, il lamento, puro si risolva in figura, / serva come una cosa o, facendosi cosa, muoia – e al di là / sfugga beato al violino. – E queste cose, che del morire / vivono, comprendono che tu le magnifichi; fuggevoli, / credon che noi, i più fuggevoli, le possiamo salvare. / Vogliono che le trasformiamo del tutto, nel cuore invisibile, / in noi – all’infinito ! Chiunque infine noi siamo”. L’Angelo si mescola con il “burrattino”, in Rilke ( Quarta Elegia, vv, 19-29 e 52-62 ).

E l’Angelo ricorre più di cinquanta volte nel disegno e nella pittura di Klee, denominato “Ritratto dell’artista come un angelo” da Raffaella Resch ( 24Ore Cultura, Milano 2018 ); posto in relazione con la angelologia cabbalistica da Gerschom Scholem ( 1897-1982 ), nei saggi Walter Benjamin e il suo angelo ( 1972 ), e I segreti della creazione. Un capitolo del libro cabbalistico ‘Zohar’ ( ed. it., Adelphi, Milano 1978-1996 e 2003 ); e ripreso da Alessandro Forti, Paul Klee. ‘Angeli’ 1913-1940 ( Franco Angeli, Milano 2005 ) e Roberta Rapelli, Gli angeli di Paul Klee ( in Le Repubbliche dell’arte, a cura di S. Risaliti, Palazzo delle Papesse – Centro Arte Contemporanea, 2000 ).

Angelus Novus, del 1920, al dire di Gerschom Scholem, fu acquistato a Monaco, tra la fine maggio e i primi di giugno del 1921, da Walter Benjamin ( Berlino 1892 – Port Bou in Spagna 1940 ); dopo che la moglie Dora ebbe offerto sempre nel 1920 al filosofo, poi morto suicida, Presentazione del miracolo di Paul Klee.

Angelo in fieri, del 1934, è dettato per simboli religiosi: un cerchio, una croce e un triangolo ( l’infinito, il cristianesimo, l’ebraismo ). Quel che non si è adeguatamente notato è il fatto che del 1938-1939 sono ben più di venti raffigurazioni angeliche di Klee: Arcangelo, 1938; Angelo del vecchio Testamento, 1939; Angelo in ginocchio, 1939; Approssimarsi a Lucifero, 1939; Presto capace di volare,1939; Angelo pieno di speranza, 1939; Crisi di un angelo, 1939; Angelus militans, 1939; Più uccello che angelo, 1939; Angelo sapiente, 1939; Angelo nell’asilo infantile, 1939; Angelo incompiuto, 1939; Ultimo passo sulla terra, 1939; La roccia degli angeli, 1939 ( l’unico dipinto con quattro angeli); Nell’anticamera della società degli angeli, 1939; Angelo povero, 1939; Angelo brutto, 1939; Angelo ancora muliebre, 1939; Angelo civettuolo coi riccioli, 1939; e In cammino ancora maleducato, del 1940.

C’è poi un olio su tela, di Berna, la Ultima natura morta di Klee, del 1940, ove nell’angolo basso a sinistra sporge una bianca e tenera figura angelica, finalmente sorridente e foriera di pacificazione , quasi in limine mortis, dipintura detta anche da taluni “Senza titolo” ( cfr. Ingrid Riedel, Engel der Wandlung. Die Engelbilder Paul Klees, Herder, Friburgo 2001 ), a sottolineare la ricerca qualitativa della “angelologia” di Paul Klee. Il 1939 è l’anno del patto di non aggressione Hitler-Stalin; l’anno del tragico; l’anno precedente la morte per malattia di Klee e per suicidio di Benjamin, arrestato dalla polizia spagnola, sotto minaccia di consegna ai nazisti, in procinto di utilizzare un visto per gli Stati Uniti. 29 Giugno 1940 – 26 Settembre 1940 ! La ricorrenza angelica, artisticamente quasi incredibile, di Klee non è solo teologica o dottrinale, collegata all’influsso di Scholem ( Walter Benjamin e il suo angelo, cit.,  Adelphi 1996, pp. 31-32 e sgg. ) su Benjamin: “Perfino gli angeli – nuovi in ogni attimo in schiere innumerevoli – secondo una leggenda talmudica vengono creati per cessare di esistere e dissolversi nel nulla, non appena abbiano cantato il loro inno davanti a Dio”. No: nell’ultimo Klee la preghiera angelica è disperata, e si moltiplica all’infinito per ragioni storiche e teoretiche non specificatamente religiose o talmudiche. Klee invoca e non si stanca di invocare la angelica vicinanza di esseri ironici e pensosi, luciferini o in ginocchio, umili e potenti, maturi o in formazione, viventi o pre-formati, ascendenti o in discesa, protettivi e forieri di speranza finale.

Così, il 1920 è l’anno che segue e accompagna le macerie, le morti, le distruzioni del primo conflitto mondiale: macerie da cui si ritrae, inorridito, l’Angelus Novus.

Il passo di Benjamin, a gara consultato e arricchito di prosecuzioni editoriali, dalle Tesi di filosofia della storia, alla IX Tesi, recita: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta” ( Cfr. Angelus Novus, nelle Tesi di filosofia della storia, del 1939, poi in edizione italiana, Sul concetto di storia, Torino 1997; e Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino 2014. – Ogni esegeta o interprete di filosofia della storia e dell’arte si sofferma su questo passo. La Arendt vi accenna nella sua biografia dell’amico prematuramente scomparso. Il Cacciari ne derivava l’idea e il programma della omonima rivista einaudiana. Ultimamente, vi ritornano – tra gli altri – Marco Bertozzi e Vincenzo Vitiello ).

La dottrina implicita di filosofia della storia ( “ebraica”, in luogo di quella “cristiana”, tipica della Provvidenza vichiana ) è ripetuta entro un paradigma schematico da Walter Benjamin, nei suoi Passages: frammenti filosofici. “Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica dell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso, ma un’immagine discontinua, a salti. Solo le immagini dialettiche sono  autentiche immagini ( cioè: non arcaiche ); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio” ( cfr. I ‘Passages’ di Parigi, ed. it., Einaudi, Torino 2010, 2 voll. ).

Il rapporto con “l’ora in una costellazione”, citato per la “fulminea” sintesi con l’ “immagine”, deriva con ogni probabilità da Klee, il quale primo – a seguito dei viaggi in Italia e della visita ai castelli medioevali che ne punteggiano il territorio – dipinse Castello e Sole, avendo compreso la relazione tra i monumenti e l’esposizione astronomica fino alle corrispondenze delle stelle ed al simbolico volgersi dei portali a Oriente ( come in Italo Calvino per Castel del Monte e Andria, nelle Città invisibili ). E Castello e Sole è del 1928. Iniziato nel 1920, è il Prima della neve, seguìto a breve da Palloncino rosso ( 1922 ) e dalle straordinarie Macchine cinguettanti ( 1922 ). Natura e tecnica tendono e cominciano a fondersi, in Paul Klee: fino ai vertici del vivisezionato a quadranti Uomo del futuro ( del 1933, l’anno dell’ascesa al potere di Hitler ), e del coevo saggio Esperienza e povertà di Benjamin, per il quale l’imponente sviluppo della tecnica non ha portato a un reale arricchimento della “esperienza”, ma – piuttosto – ad una “nuova barbarie”. Siamo sul percorso segnato dalla magistrale lezione del Vico, a proposito della “barbarie della riflessione”, nella Conchiusione dell’ Opera, su cui dovrò tornare. Mi fermo, ora, sulla risposta ad “Angelus Novus”, che è l’arte di “Prima della neve”. Prima della neve porge l’immagine di un cielo plumbeo, cupo e compatto ma che contiene nel proprio seno bagliori di luce e di fuoco, resi con striature rosse, a indicare quanto porta nel grembo la notte invernale. “Il grembo è tutto”, aveva detto Rilke. In basso, e al centro, si accampa un albero ricco di fronde in forma di chioma, con campiture leggere e policromatiche ( chiare, verdi, viola, rosse, bleu e gialle o arancione, forse e senza forse con allusione interna alla circolazione di una doppia spirale ): albero che si connette con un altro nembo in alto a destra, contenente un duplice rinvio ( a un gomitolo e a un embrione più scuro, simile a una creatura nel suo intimo ). Ancora una volta: c’è la ricorrenza del Képos, del “grembo” e del richiamo ancestrale, che precede la “neve”. Dall’albero, poi, fuoriescono degli steli più scuri, uno a sinistra uno al centro e uno a destra, che però, stagliandosi nel loro profilo, finiscono per sembrare somiglianti a dei ramarri. Il terreno è ancora più scuro con radi arbusti. Negli stessi anni, Klee ha illustrato nella conferenza di Jena del 26 gennaio 1924 la metafora dell’albero e della sua chioma per raffigurare l’idea dell’artista nella sua opera. “Quest’orientamento nelle cose della natura e della vita, questo complesso, ramificato assetto, mi sia permesso di paragonarlo alle radici di un albero. Di là affluiscono all’artista i succhi che ne penetrano la persona, l’occhio. L’artista si trova nella condizione del tronco. Tormentato e commosso dalla possanza di quel fluire, egli trasmette nel’opera ciò che ha visto. E come la chioma di un albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene con l’opera” ( sottolineatura mia nel testo ).

Il “vento” di tempesta che sembra arrestare le ali aperte dell’ Angelo, qui – in Prima della neve – manca; è risolto in una “brezza” lieve che ferma i ricami di steli e spore, volendo rendere il momento, “invisibile agli occhi”, che precede la caduta della neve. Il poeta ci dice della memoria delle morte stagioni, delle passate primavere, del seno occulto della natura, delle forme che ne derivano in continuità. L’arte ci fa vedere ciò che è invisibile agli occhi, il “passato” essendo così “l’insonne e inesausto prodursi delle forme” ( al dire ermeneutico di Italo Mancini ); non già, e non solo, l’accumulo di “macerie” e di “morti”, provocato da falsa idea di progresso e “volontà di potenza”, accumulo contemplato nello sguardo sgomento, e terrore defixus, dell’ Angelus Novus ( giusta la lettura di Benjamin ). La “poesia” – dice Klee – è “forma intermedia” tra mondi diversi, per la sua capacità di evocare – in forma rarefatta – pensieri, immagini e suoni. Nelle impressioni suscitate dal viaggio a Napoli ( dopo Genova e la Liguria ), ai primi del Novecento, Klee annota, prendendo spunto dal contrasto tra paesaggio affascinante e tradizione storica imponente rispetto alle condizioni del cencioso popolino : “Poter conciliare gli opposti. Esprimere la molteplicità con una sola parola”. Dovunque egli cerca l’essenzialità, il simbolo, l’immagine, l’ “eidolon” primigenio, che formi il tratto comune a mondi disparati, usi e costumi remoti, tradizioni antiche e moderne. La ricerca è precedente l’archetipo junghiano, e il vivente originario schellinghiano: o meglio è il “vivente originario” rispetto all’inconscio, all’archetipo, alla libido: è la vera facultas praeformandi ( indicata da Jung per rispondere alle obiezioni dei suoi critici, sì da dichiararla spesso la “tendenza” all’archetipo della deità e del mito ). Con linguaggio attinto al mondo antico e a Lucrezio, Klee parla volentieri di “eidolon”, ossia di “simulacra”, “ombre” del sogno come nel De rerum natura, al Libro IV dei sogni ( Achille e Patroclo ), traduzione latina dell’epicureo linguaggio della natura. E’ la Ur-bild, oggi forse il “Rizoma” ( come direbbero Deleuze e Guattari ), ma con una ‘originarietà’ insieme preesistente e sovrastante, che ricerca la Ideen-Kunst, spazia per i mondi e i tempi dell’universo; ma proprio nello “spaziare”, essenzializza i rapporti e accosta le trame ritrovando ogni volta un motivo comune, una cifra universale, un Leit-motiv non soltanto ( Klee è ferratissimo musicista e musicologo ); ma la “evidenza” del Leit-motiv.

 Il “passato” è anche Aurora Consurgens ( archetipo junghiano ); il mondo ancestrale che torna a farsi vivo; non soltanto il cumulo quantitativo di macerie e di morte. Prima della neve è, perciò, l’alternativa complementare e dialettica ad Angelus Novus. Potrei dire che costituisce il segreto “ricominciamento”, il “ricorso” dinanzi alla “barbarie della riflessione”. E’ l’arte, con la capacità di rendere visibile l’invisibile, di dare forma all’intuizione e al sogno, che realizza il “ricorso” vichiano dalla età della nuova “barbarie riflessa”, e non “del senso”. L’arte è “l’aerea leggerezza del simbolo”; una “aspirazione chiusa nel giro di una rapprsentazione”, scrive Croce nel suo Breviario di estetica del 1908 e ne L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte. Così, dalle rovine si ritrae l’Angelo. Ma sulle rovine si staglia il delicato profilo del “vivente originario”, della “potenza di essere” ( Schelling ), come il momento – “rammemorato nell’heideggeriano Andenken – della vita prima della vita, nel caso del respiro e disegno aereo che precede il notturno precipitare bianco-spettrale nevoso. “Artista cosmico” è definito Paul Klee, dai suoi primi critici. Leopold Zahn nei “Valori plastici” del 1921 scrive in italiano:”Il genio di Paul Klee si libra in serenità cosmica, al di sopra delle cose appartenenti alla realtà. Il campo artistico di Klee abbraccia l’infinito: mondi morti, presenti e futuri, la vita in fondo al mare e sugli astri”.  Il “senso del mistero” aleggia tra decorazione e spiritualità, terreno e divino, fino ai più tardi Roccia artificiale del 1927; Sentieri intorno alla roccia bruna, del 1932; Tavola matrice per la stampa, che deriva dagli studi e viaggi nelle culture extrauropee e sembra alludere a tessere di civiltà aliene; Ragazza esotica del tempio, del 1939, e altre opere ancora ( come il Sommo guardiano  ) di un produzione a volte febbrile e sempre intensa. Klee non caso preferisce il “disegno” alla pittura classica ad olio o tempera, come quello che meglio testimonia la vocazione per la trama ideale, il primo tracciamento della figura e della forma ( vedine, dopo il viaggio in Tunisia e le lezioni al Bauhaus, la trattazione in Teoria della forma e della figurazione ). L’influenza “idealistica” dell’estetica di Konrad Fiedler, illustre neokantiano, è sottolineata più volte da Carlo Ludovico Ragghianti, a proposito dei suoi “Diari”.

In un appunto su Klee degli anni Venti, Rainer Maria Rilke scrive, anticipando la dottrina del “pericolo” che, proprio perché tale ( al dire di Martin Heidegger ), “ci protegge”: “E così, gli oggetti d’arte sono sempre un risultato dell’essere-stati-in pericolo, dell’essere andati fino in fondo a un’esperienza, sin dove nessuno può avanzare oltre. Tanto più si va avanti, tanto più l’esperienza diventa particolare, personale, unica, e l’oggetto d’arte è finalmente la promessa necessaria, irreprimibile, quanto più possibile definitiva di tale unicità” ( Vedine il recupero in Giovanni Volpe, Paul Klee. La formula poetica, Pendragon Bologna 2019; e “www.klee.live” ).

 Il confronto non va istituito soltanto tra il frontespizio della Scienza Nuova vichiana, incentrato sull’idea della Provvidenza, e l’ Angelus Novus, dominato dall’orrore per la storia vissuta, come inclina a mostrare Vincenzo Vitiello ( cfr. Due quadri, due filosofie, due mondi. La teologia poltica di Vico e Benjamin, in “Estetica. Studi e ricerche”, “Vico e l’estetica”, Vol. VIII, 2/2018, pp. 231-254 ). Ma bisogna “tenere insieme”, “tessere insieme”, oggi e nella dimensione della “complessità”, l’Angelo “dopo il diluvio” con l’Arte e la Natura “prima della neve”; la critica all’idea di progresso e la visione sempre nuova, che riattualizza la memoria delle morte stagioni “e la presente e viva e il suon di lei”; “barbarie della riflessione” e “vivente originario”; la fine e il principio della storia.

E vanno tessute insieme le vie d’uscita dal dolore, la schopenhauriana ricerca di arte “liberatrice”, della “compassione” che va oltre la “giustizia” e della  “ascesi”; con la vichiana idea del “ricorso”, il cui vertice è nell’ “ultimo civil malore” e nella “malnata sottigliezza” degli ingegni arrugginiti, dal momento che attiene propriamente al “diritto”, alle “guise della prudenza” e alla “costanza della giurisprudenza”, in cui il momento fondativo del diritto romano si è riprodotto nel diritto feudale medioevale; con rinnovata tradizione dell’autoperfezionamento morale, nel circolo della vita spirituale, dall’arte sempre “risorgente” e con l’arte altrice di sanità e vigoria in tutte le sue forme.

 Legittimo è domandarsi.

– Possono con-venire paradigmi apparentemente sì eterogenei e realmente distanti ? Arte – Diritto – Autoperfezionamento ( Vico – Goethe – Constant – Croce ). Arte – Compassione – Ascesi ( Schopenhauer ). Giustizia ( Din ) – Pietà ( Rachamim ) – Amore ( Chesed ), nella tradizione cabalistica del Libro dello Splendore – Zohar ( cfr. la ed. SE, Milano 2016, per il paragrafo su “Dio”,  ove la “Pietà” è il centro “mediatore” tra “Giustizia” ed “Amore” ). E’ ancora, e comunque, la “Pietà” ( nella splendida Conchiusione della Scienza Nuova vichiana ). Possono “con-venire”, certamente, nell’essere, la “mediazione”, non “dono”, ma “dura” conquista, e “riconquista”, di ogni giorno. E cioè: come “Autoperfezionamento” morale, nel celebrato “Discorso” di Beniamin Constant 1819; nel genio lirico e gnomico di Wolfgang Goethe; nella “ religione della libertà” di Benedetto Croce e di Pilo Albertelli; nel ‘punto de l’unione dei contrarii’ di Giordano Bruno e nella coincidentia oppositorum di Niccolò Cusano; nell’alta mediazione dialettica operata dalla vichiana Provvidenza, oggetto di tante contese ermeneutiche ( ideali e storiche, cattoliche o storicistiche, antitetiche o ricompositive ).

 Doveroso è l’inoltrarsi.

– La dialettica è “antitesi”, è “polemos”, è “lotta dei contrarii” e “tra i contrarii” ( Alfredo Parente , nella “Rivista di studi crociani” del gennaio-marzo 1970 ) ? O la dialettica è “logica dialettica”, e postula una “sintesi” tra i contrarii, pur non in una cuspide di forma e scuola hegeliana ( Raffaello Franchini, con la “Rivista di studi crociani” di aprile-giugno 1970, pp. 138-145 ) ?  Il dibattito tra i due prosecutori e interpreti dello storicismo fu ripreso da Eugenio Montale in articoli ed elzeviri e da me in svariati saggi. Il dibattito nasceva e s’imponeva mercé la discussione, a proposito dell’ ufficio della provvidenza vichiana, vero “punto di svolta” dell’ermeneutica filosofica europea; e, in particolare, sul punto se fosse possibile o significativo inscrivere il pensiero di Vico, e il suo apporto alla formazione del pensiero occidentale, all’interno di una moderna “storia della dialettica” ( come aveva inteso Raffaello Franchini nelle Origini della dialettica, Giannini, Napoli 1976, giunte alla nuova e quarta edizione ). Per tanto, deduceva il Franchini, tra “ferocia” e “milizia”,  nella conversione provvidenziale della “eterogenesi dei fini”, c’ è pur sempre bisogno della virtù del “coraggio”. E tra la “avarizia” e la “mercatanzia”, parimenti occorre inserire il momento del “risparmio”; come tra la “ambizione” e la “corte” delle città, esiste e si attiva la “nobilis aerugo” che media gli opposti della “vanità” e della “soggezione”, per dar luogo al potere civile costituito. Lo stesso accade per l’etica della umana Pietà, mediatrice nel “Giudizio”, come “dolcezza”, tra i termini della “Giustizia” e dell’ “Amore”. Quella altissima “Pietà” su cui posa la nobile chiusa del Vico: “In somma da tutto ciò, che si è in quest’ Opera ragionato, è finalmente da conchiudersi, che questa Scienza Nuova porta indivisibilmente seco lo studio della Pietà; e che se, se non siesi pii, non si può daddovero esser saggi” ( cfr. i miei Le “Guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi, Bari 2017; con Codici vichiani per la critica omerica e l’ermeneutica filosofica; Max Ascoli e la filosofia del diritto; Archetipo junghiano e senso comune vichiano ). “Pietà” da intendersi – come dicemmo – non in senso teologico-dottrinale, ma per il vertice della “ontologia poetica” viciana, sintesi della visione generale della storia e del mondo.

Notevolmente, la mediazione della “Pietà”, che sorpassa e integra il Diritto e si accomuna o approssima all’ Amore, è vissuta nella portentosa erudizione filosofica dello Schopenhauer, attingendo alla lingua della poesia e filosofia italiana ( Petrarca, forse Vico ), nel Libro Quarto del Mondo come volontà e rappresentazione: dove, ai §§ 61 sgg., si esalta il diritto contro l’ingiustizia e a compensazione della ‘eris’, o contesa, tra gli uomini ( pp. 440-460 ). Quindi, si addiviene ai §§ 64 sgg., con ‘addolcimento’ del giudizio ( pp. 493 sgg. ). “A conferma del nostro paradosso – specifica lo Schopenhauer – si può osservare, che accento e parole della lingua, e carezze del puro amore coincidono  in tutto col tono della compassione: e inoltre, di passata, che in italiano compassione e puro amore vengono indicati con la stessa parola. Pietà. (..) Il pianto è dunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per condizione la capacità dell’amore e della compassione, e la fantasia; quindi né uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono facilmente, ed il pianto vien’anzi ognora considerato come segno d’un certo grado di bontà del carattere, e disarma l’ira, perché si sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche capace d’amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci mette, nella maniera descritta, in quella disposizione che al pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione è il modo come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento, descrive l’origine delle sue lacrime: I’ vo pensando, e nel pensier m’assale / Una pietà sì forte di me stesso, / che mi conduce spesso / ad alto lagrimar, ch’io non soleva” ( in italiano nel testo, riferito dalla edizione laterziana di Savi Lopez e De Lorenzo, con premessa di Cesare Vasoli, Bari 1914/16 e 1986 ). Dove, accostandoli dall’interno, Schopenhauer non fa altro che dialetticamente “mediare“ pietà e amore, avendo già oltrepassato, dall’altro capo del complesso rapporto, il percorso tra la “giustizia” e la “compassione”. In fondo, mutato il dovuto, è quanto la tradizione alchemica e la sapienza dei secoli avevano formalizzato nello schema delle dieci sefiroth, al cui cuore pulsa la medesima dinamica alternativa ( ‘Rachamin’, tra ‘Din’ e ‘Chesed’: XIII sec., per opera del maestro spagnolo Leon di Valladolid ).

E’ doverso e legittimo, a questo punto, profondarsi.

“I millenni del sentimento”, non li ricolmano, i “nostri spazi” ( Rilke, Settima Elegia, v. 80 ): “da sie Jahrtausende nicht unseres Fuhlns Uberfulln”. – “La vita nostra trascorre in trasformazione” ( Settima Elegia, vv. 50-51 ): “Unser / Leben geht him mit Werwandlung”. – “Allora dalle nostre stagioni il ciclo sorge / della mutazione intera” ( Quarta Elegia, vv. 59-61 ): “Dann entsthet / aus unsern Jaherszeiten erst der Umkreis / des ganzen Wandelns” . – “Ma i viventi fanno tutti l’errore che troppo forte distinguono” ( Prima Elegia, vv. 80-81 ), detto per l’esser morto a fatica, ma estensibile ermeneuticamente al metodo storico e alla ragione pensante il mondo della vita: “- Aber Lebendige machen / alle den Fehler, dass sie zustark unterscheiden”.

“Prima distingui – poi unifica”, insegna Goethe, e ripete Croce. Pure, restano, oltre la distinzione di poesia e prosa, poesia e non poesia, il goethiano “Regno delle Madri” ed il crociano, tizianesco e postremo recupero, pluri-potente, del “Vitale”. Campeggiano, ed echeggiano, sullo sfondo, tutte le topiche del Vitale e dell’ Archetipo ( v. “La fucina del modo”. Sintesi del Vitale;  con Il vivente originario, Libertates 2013 ).

Rilke comunica embrionalmente tutto ciò: non solo prepara l’ “essere per la morte”, il rapporto tra mondo “Aperto” e “Chiuso”, liberatisi nelle dottrine heideggeriane degli Holzwege e del Ge-viert; ma anche il “Be-zug”, il Centro come centro delle forze pure della Gravitazione universale, e il rapporto tra vita e forme, “latenza dei millenni” spirituali e naturali e “risveglio del circolo” ( v. i miei Trascendentalità del Tempo e Modalità del Tempo, “Filosofia e nuovi sentieri”, 5 novembre 2017, con le Generazioni del Tempo, Andria 2018 ).

Dialettica “antitetica” o “sintetica”; dialettica delle passioni e prospettiva, necessitano ancora di una tematizzazione che le compenetri e le deduca l’una dall’altra e per l’altra. Se la dialettica delle passioni ( la “Terza scoperta dell’estetica crociana” , al dire di Alfredo Parente ) è “sintesi degli opposti”, maieutica, parto di ogni istante, – essa stessa non può ridursi ad ambiguità psicologica, mera oscillazione dell’animo, inerzia esistenziale. Dall’ altro capo del filo, anche la teoria della previsione (‘ Quanto un buon gittator trarrìa con mano’, come insegna  Dante nell’Antipurgatorio ), o la “prospettiva, per essere tali, e non profezia millenaristica o unilaterale forma di pessimismo né di  ottimismo altrettanto fatuo o unilaterale, deve postulare la “coincidentia oppositorum”, ossia la insopprimibile base vitale della “dialettica delle passioni”, giunta all’ acmé del proprio percorso nel momento della decisione, della volizione-azione, l’ Alea iacta di Cesare ( cfr. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, 1899; Raffaello Franchini, Teoria della previsione, Napoli 1964-1972; Alfredo Parente, Croce per lumi sparsi, Firenze 1975; Giuseppe Brescia, “Non fu sì forte il padre”.Letture e interpreti di Croce, Salentina 1978 ).

Sì che abbiamo. 1. Sentimento e Tempo sono formazioni coeve, diceva il nostro Pantaleo Carabellese. 2. La mesòtes, il punto di equilibrio dei contrarii, è, e si adempie, nel tempo. E’ opera della dura conquista spirituale. 3. La “dialettica” è idea del dinamismo e non della staticità; “prospettiva” e non contrarietà per “diritto e rovescio”; legge del campo associativo ( Leopardi ) non sedimentazione linguistica definitoria dell’altra “faccia della medaglia” ( Freud ). 4. Quindi, la mediazione dialettica è “autoperfezionamento”, è la “forza di essere migliori” ( Vito Mancuso, 2019 ). 5. L’ autopefezionamento morale è dunque la “molla del procedimento dialettico”.

 6. E, in fondo, anche la junghiana topica della “enantio-dromia” si conferma, all’indagine più attenta, dinamismo della “corsa” ( da *dromos ), dei contrari e tra i contrari, anche se sull’orlo del precipizio. 7. Ma anche l’arte e il diritto, la liberazione estetica dal dolore e la tessitura della giurisprudenza, richiedono tensione morale, concentrazione e sacrificio ( v. Croce in La storia come pensiero e come azione, Capitolo IX ). “Il fine della morale è di promuovere la vita. ‘Viva chi vita crea’, cantava Wolfgang Goethe. – Ma la vita promuovono tutte le forme dell’attività spirituale con le opere loro, opere di verità, opere di bellezza, opere di pratica utilità. Per esse si contempla e si comprende la realtà, e la terra si copre di campi coltivati e d’industrie, si formano le famiglie, si fondano gli stati, si combatte e si sparge il sangue, si vince e si progredise. E che cosa mai aggiunge a queste opere  belle, vere e variamente utili la moralità. Si dirà: le opere buone. Ma le opere buone, in concreto, non possono essere se non opere di bellezza, , di verità, di utilità. E la moralità stessa, per attuarsi praticamente, si fa passione e volontà e utilità, e pensa col filosofo, e plasma con l’artista, e lavora con l’agricoltore e con l’operaio, e genera figli ed esercita politica e guerra, e adopera il braccio e la spada”. 8. Allora, la possibilità del vichiano e joyciano “Ricorso”, del “circolo” e del “ricominciamento”, del Kreis des ganzen Wandels di Rilke e del sorriso finale dell’Angelo di fronte allo stilizzato e dis-umanato Uomo del futuro di Klee; codesta evenienza si fonda sulla “volontà morale”, di bel nuovo creativa e ricostruttiva.

Onde accerta nella “Conchiusione dell’Opera” il Vico: “E sì spiegarono repubbliche sopra ordini naturalmente migliori per virtù certamente eroiche; come di pietà, ch’adoravano la divinità, benché da essi per poco lume moltiplicata e divisa negli dei, e dei formati secondo le loro varie apprensioni ( come da Diodoro Siculo, e più chiaramente da Eusebio ne’ libri De praeparatione evangelica, e da san Cirillo l’Alessandrino ne’ libri Contro Giuliano apostata, si deduce e conferma ); e, per essa pietà, ornati di prudenza, onde si consigliavano con gli auspìci degli dei; di temperanza, ch’usavano ciascuno con una sola donna pudicamente, ch’avevano co’ divini auspìci prea in perpetua compagnia di lor vita; di fortezza, d’uccidere fiere, domar terreni; e di magnanimità, di soccorrere a’ deboli e dar aiuto a’ pericolanti: che furono per natura le repubbliche erculee, nelle quali pii, sappienti, casti, forti e magnanimi debbellassero superbi e difendessero deboli, ch’è la forma eccellente de’ civili governi” ( Opere nella ed. Paolo Rossi, Milano 1959, p. 851 ).

Così, per Benedetto Croce, di fronte alla Fine della civiltà, il pregio dell’opera umana “non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa” ( 1946, in Filosofia e storiografia, Bari 1963, pp. 309-311 ). Testualmente, recita il passo: “E nondimeno, se l’uomo accetta la morte e la desidera al termine della vita operosa, sembra che mal si rassegni al pensiero della fine della civiltà nella quale è nato, si è educato, ha lavorato ed ha amato e si è travagliato. Egli vorrebbe che quel mondo continuasse per coloro che gli sopravviveranno e per quelli che verranno dopo di lui. Tutte le opere belle dovute agli uomini di genio, tutti i libri che contengono verità che gli stanno particolarmente a cuore, tutte le istituzioni che sperimentò a lui benefiche vorrebbe che avessero sicurezza di avvenire. La sollecitudine è tanto più comprensiva, l’angoscia tanto più tormentosa, quanto maggiore è il numero delle cose che la cultura gli consente di stringere al suo petto.Vero è che la storia gli narra delle immense perdite di questa sorta che l’umanità ha fatto: delle opere insigni, greche e romane,  di cui si sono salvati i soli titoli; di quelle di cui avanzano frammenti che suscitano un desero desiderio; di quelle che come per miracolo ci pervennero in un unico codice; e poi delle pitture e delle statue e degli edifici che già splendettero sulla terra, e degli ordinamenti del diritto che solo tardi e a stento furono riconquistati. Ma nelle tregue concesse dalle forze distruggitrici, nelle quali la civiltà tessé e ritessé la sua tela, e che pur tra parziali o episodiche distruzioni durarono secoli e millenni, si è tessuta l’illusione che la civiltà umana sia la forma a cui tende e in cui si esalta l’universo, e che la natura le faccia da piedistallo. E che richiede uno sforzo penoso passare alla diversa visione della civiltà come un fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire, e del pregio suo che non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa”.

Infatti” – osserva Peter Szondi, acuto lettore delle Elegie duinesi di Rilke -, il possesso delle cose sarebbe vanificato dalla morte dell’uomo; non può sussistere se l’uomo  viene considerato non più dentro i limiti della sua esistenza terrena, ma alla luce del più ampio contesto del suo intero essere, rispetto al suo duplice rapporto, nell’eterno fluire delle cose”. Torno a Rilke che molto soffrì nel progettare e recare a compimento le proprie Elegie duinesi, sì da scrivere  alla principessa Maria von Thurn und Taxis: “Finalmente, principessa, finalmente il benedetto giorno, quanto benedetto, in cui vi posso annunciare  – per quanto io vedo – compiute le Elegie: Dieci ! Dell’ultima, grande ( ch’ebbe inizio un tempo a Duino: ‘ Che io un giorno, sortendo dall’atroce conoscenza, / un canto di giubilo e lode lev ial consenso degli angeli..’ ), di quest’ultima, che anche allora era designata ultima, – di questa mi trema ancora la mano ! Ora, sabato, l’ 11, alle sei di sera, è finita ! Tutto in pochisimi giorni, fu una tempesta senza nome, un uragano nello spirito ( come un tempo a Duino ), tutte le mie fibre e i miei tessuti scricchiolavano – al cibo non fu possibile mai pensare, Dio sa chi m’ha nutrito. Ma ora è. E’. E’. Amen” ( 11 febbraio 1922: cfr. Genesi dell’opera, in P. Szondi, Le “Elegie duinesi” di Rilke, cit., pp. 19-20 e 141-148 della Postfazione di Elena Agazzi ).

Da parte sua, nei “Diari”, il 1901, Paul Klee confida: “Io sono Dio. Tanta divinità si è accumulata in me che non posso morire. La mia testa brucia da scoppiare. Uno dei mondi che nasconde deve nascere. Ma prima di creare devo soffrire”. “L’arte è l’immagine allegorica della creazione” –

“Nell’arte si può anche cominciare da capo, e ciò è evidente più che altrove, a casa propria nella stanza riservata ai bambini. Anche i bambini conoscono l’arte e ci mettono molta saggezza” ( cfr. Giorgio Cricco – Francesco Paolo di Teodoro, Itinerario nell’arte. Dall’ Art Nouveau ai giorni nostri, Zanichelli, Bologna 2008, Cap. 32.3, alle pp. 1398-1401 ). Il passo non sarebbe dispiaciuto a Croce, per il concetto che “nell’arte si può ricominciare da capo” ( come non dispiacerà a Carlo Ludovico  Ragghianti per le sue Arti della visione e Arte e conoscenza nella paleostoria ).

Il travaglio della creazione è anche il travaglio del responso, della decisione, della giustizia. Straordinariamente, il tratto su “Dio” ( ‘En Sof’ ) del Libro dello splendore recita “E se tu dicessi: Allora c’è differenza tra ‘pietoso’ e ‘giudice’ ?”, perché “Quando egli era unico, prima che creasse il mondo, perché avrebbe dovuto essere chiamato con quei nomi o con altri appellativi, come per esempio ‘pietoso, misericordioso e longanime’, giudice, forte, potente e molti altri attributi del genere ?” ( Il Libro dello splendore, SE, 2000, ed. cit., pp. 14-18 ). “Straordinariamente”, a giustificare la audace sovrapposizione ermeneutica, il problema della “Pietà” è visitato nel sorriso della madre, nella “dolcezza” del giudizio, da Carlo Antoni, geniale erede dello storicismo crociano, con il saggio La restaurazione del diritto di natura ( Neri Pozza, 1959 ) e la nota La pena è del giudice. “Questa scoperta è la sofferenza e pena del giudice, non del malfattore. E’ un dolore che è parente del rimorso, e forse è una sorta di universale rimorso. Dove però, nella condanna, c’è sempre il pericolo della superficiale incomprensione, della mancata carità, della superbia, proprie del fariseo, del puritano, del moralista, che condannano con soddisfazione e non con dolore e compassione. E’ quanto ben sanno le madri, che richiamano i figli dai loro peccati col solo spettacolo della propria delusione ed afflizione”( Tempo e Idee, Napoli, ESI, 1967, p. 452  ).

Mutati i contesti storici e ideologici, il problema fondamentale dell’anima della giustizia, del quid justum e non tanto del quid juris kantiano, riposa sugli stessi termini e momenti della “mediazione” dialettica ‘giustizia’ – ‘amore’ versus ‘pietà’ e  ‘compassione’: svelandosi nient’affatto sopito, semmai  attuale e complesso ancora di più, per il fatto di essersi sommati due e più opposti errori, nel declino delle nazioni. Il giureconsulto – dice Kant “può, certo conoscere e dichiarare che cosa appartenga al diritto ( quid sit juris ), vale a dire ciò che leggi in un certo luogo re in un certo tempo prescrivono o hanno prescritto; ma se ciò  che quste leggi prescrivono sia poi anche giuso, e il criterio univerasale per mezzo del quale si può riconoscere in generale ciò che è giusto e ciò che è ingiusto ( iustum et iniustum ), gli rimane completamente nascosto..Una dottrina del diritto puramente empirica ( come la testa di legno nella favola di Fedro ) è una testa che può essere bella, ma che, ahimé ! non ha cervello” ( cfr. Metafisica dei costumi, ed. Vidari, Bari 1970, p. 34 con Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto. Con un saggio di Christian Garve, tradotti da Gioele Solari e Giovanni Vidari, a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo Vittorio Mathieu, UTET, Torino 1956; Italo Mancini, Filosofia della prassi, Morcelliana, Brescia 1986; Giuseppe Brescia, “Le guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi, Laterza, Bari 2017 ).  

Harold Bloom ha osato scrivere il codice occidentale del Genio, incasellando i grandi classici nelle “dimore” cabbalistiche delle dieci sefiroth, forse non sempre con eccelsi risultati. Rilke viene trattato come amante di tante belle signore, anche se certamente importante per la sua lirica “veggente dell’invisibile” e “creatore delle sue muse” ( Sezione “Yesod” – Lustro 18 ). Tra “Din” e “Hesed”, la “Tiferet” ( Versione della “Misericordia” – Lustro 12 ) onora la linea dei classici di Francia: Victor Hugo, Gérard de Nerval, Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud, Paul Valéry ( cfr. Il Genio, ed. it., BUR, Milano 2004, rispettivamente pp. 820-825 e 525-571 ). – Inutile sarebbe rilevare le assenze di Pico della Mirandola, Leonardo da Vinci, Giordano Bruno, Ludovico Ariosto, Vico e Croce, Mallarmé e quant’altri; come il tono disinvolto di cavalcata veloce dell’ Opera. Ma ora interessa commentare il padre di Benjamin Disraeli, il letterato sefardita Isaac, che scrisse: “Devono nascere molti uomini di genio prima che possa apparire un particolare uomo di genio”. Come segna Eugenio Montale: “Occorrono troppe vite per farne una”. Dell’esperienza trascendentale di Rilke e Klee e derivazione filosofica del Benjamin, traiamo il senso della circolazione delle idee e degli impegni spirituali, il potenziamento dell’essere umano e vitale che si trasmette nelle sue varie forme, celesti e terrene, angeliche e peccatrici, ma che scavalca il “troppo forte senso delle distinzioni”. “Troppo forte gli uomini distinguono”, insegna Rilke. L’ “En Sof”, il percorso divino inarrestabile in tutte le forme di attività spirituali, va incanalato ma non irrigidito e bloccato. Il “Vitale” è la primigenia scaturigine dell’ Opera, è parto di ogni istante, è temporalità nella dialettica e dialettica nella prospettiva. Quindi, la “territorializzazione” delle opere e dei generi va sempre mitigata, e così ricondotta al “processo” dell’arte nel suo farsi: e, per l’arte e con l’arte, al travaglio incessante dello spirito che accompagna il genio della filosofia e della scienza nelle proprie scoperte.

Arte – Compassione –  Ascesi. Barbarie della riflessione – Ricorso – Diritto. Autoperfezionamento – Guise della prudenza – Crescita spiralica dello spirito: sono paradigmi diversi ma pur convergenti in uno, quando si veda il rafforzamento delle energie e virtù morali dell’uomo al centro di ogni processo istitutivo, creativo, redentivo dalle macerie accumulate e aggravate dalle storie. Ciò spiega il frequente ricorso ai simboli, alle tessere archetipali, all’accostamento di stilemi antichissimi quali i geroglifici alle tracce della tarda modernità nel linguaggio computerizzato, che si persegue sempre più di frequente, come negli istituti di ricerca e negli intinerari artistici della città di Gerusalemme. Quasi a voler indicare, e trattrenere, una ricerca di pace e comunicazione al’insegna dell’ “eidolon” kleeano, dell’ “Archetipo” junghiano o del “senso comune” vichiano. Ci vorranno trecento anni per comprendere appieno Finnegans Wake, diceva James Joyce. E altrettanti ne abbisognano per leggere e interpretare tutte le linee e le prospettive dei diecimila disegni e acqurelli e dipinti di Paul Klee ( cfr. un primo ‘scolastico’ accostamento di Klee a Joyce in Giulio Carlo Argan, L’arte moderna, Firenze 1970, pp. 298-299 ), nella sua inesausta ricerca di andare alle fonti delle fonti del “vivente orginario”, tra potenza e atto, essenza e esistenza, materia e forma, sempre al rischio di cadere nell’inattingibile “residuo” metafisico della cosa in sé. Ma la ricerca della “lingua mentale comune”, delle “idee uniformi”, “appo popoli e generazioni distanti” ( al dire del nostro Vico ), di miti e simboli corrisposti per entro i “millenni del sentimento” ( Rilke ), della ricerca dell’essenziale che sottolinei nella “molteplicità” il lume di “una sola parola” ( Klee ), quasi applicando il principio di economia mentale parallelamente sostenuto dall’empiriocriticismo di Mach e Avenarius ( ripreso dall’ Einstein ), richiede pur sempre un atto della volontà morale. Non posso guardare le stelle o l’archetipo o l’emblema comune ( all’insegna della comunicazione e della pacificazione ), se non voglio e non intendo farlo, se mi copro il volto e fascio la testa, non mutando l’animo del fanatico e dell’aggressore. Anche se volessi sostituire alla legge che fa male, alla legge della pena, la legge dell’amore, il cristianesimo, come inclina a credere e proporre il citato Walter Benjamin, in essa devo voler credere, perorando i suoi “ragionevoli convincimenti”, e dunque sempre un atto di “autoperfezionamento morale”, che ridia origine al circolo spirituale ( cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, degli anni Venti, in Opere, a cura di Giorgio Agamben, II, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Torino 1982, pp. 133-156 ).

Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria per la Puglia – Andria