1. L’anniversario del 31 ottobre

Il 31 ottobre 1517 appartiene alle date fondamentali della storia europea. La pubblicazione delle 95 tesi di Lutero sulla dottrina delle indulgenze [(de virtute indulgentiarum) e altri problemi connessi (penitenza, colpa e pena, purgatorio, primato)] è considerata infatti la data d’inizio della Riforma protestante, il movimento che ha riscritto la geografia religiosa del cristianesimo occidentale e ha esercitato un’influenza profonda anche nei campi della cultura, della politica e dell’organizzazione della società.

L’importanza di questo inizio trova conferma nel modo in cui è stato raccontato e nei tratti «mitologici» che la narrazione dell’evento ha assunto nel corso dei secoli. L’affissione delle tesi sulle indulgenze [secondo l’uso accademico[1]] alla porta della chiesa del Castello [e dell’Università] di Wittenberg da parte di Martin Lutero ha rappresentato, secondo l’interpretazione corrente, l’atto di ribellione del monaco tedesco contro il potere ecclesiastico romano e contro la corruzione della chiesa del tempo, che nella vendita delle indulgenze trovava una delle sue espressioni più evidenti e intollerabili. I colpi di martello di Lutero — così si legge in numerosi racconti — hanno risuonato in tutta Europa, annunciando l’inizio di un’epoca nuova. Il mito non è stato scalfito dalla ricerca storica che ha descritto in termini meno eroici il significato delle tesi sulle indulgenze e il contesto della loro pubblicazione. La forma di tesi, che Lutero dà alla sua presa di posizione e la lingua latina in cui sono formulate, rimandano al contesto della disputa accademica e l’intenzione del giovane professore dell’Università di Wittenberg sembra essere stata anzitutto un invito a una pubblica discussione sul fondamento delle indulgenze e sulle forme della loro concessione, oltre che un appello rivolto alle autorità ecclesiastiche perché facessero cessare gli abusi legati alla predicazione delle indulgenze.

Negli anni ’60 del secolo scorso due storici cattolici, Erwin Iserloh e Klemens Honselmann, hanno sostenuto che l’affissione delle tesi non sia in realtà avvenuta. Le testimonianze sull’episodio sono infatti incerte e tardive: ne parla per primo Filippo Melantone nel 1546, a trent’anni dai fatti, dopo la morte di Lutero, e senza esserne stato testimone in prima persona perché in quel periodo si trovava ancora a Tübingen. Secondo la ricostruzione proposta dagli storici citati, Lutero ha semplicemente prodotto una serie di tesi che invitavano alla discussione teologica sulle indulgenze e ha inviato all’ordinario del luogo, l’arcivescovo di Magdeburg Albrecht von Brandenburg[2], una lettera nella quale chiedeva che si mettesse fine agli abusi causati dalla predicazione delle indulgenze, allegando le tesi che aveva preparato sul tema. […] In realtà, la questione dell’affissione pubblica delle tesi sulle indulgenze non può essere decisa con certezza sulla base delle fonti di cui disponiamo. E si tratta inoltre di una questione di importanza secondaria rispetto al contenuto delle tesi di Lutero e, soprattutto, all’effetto da esse prodotto nel dibattito teologico ed ecclesiale del tempo[3]. Infatti la disputa a cui Lutero aveva invitato non ebbe luogo, ma le sue tesi ebbero una risonanza enorme. In poche settimane si diffusero in tutta la Germania, riscuotendo gran numero di consensi clamorosi.

Nel 2013 è stato preparato dalla Commissione internazionale cattolico-luterana — formata dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e dalla Federazione luterana mondiale — il documento Dal conflitto alla comunione. La commemorazione comune luterano-cattolica della Riforma nel 2017[4]. Il n. 4 di questo documento parla del contesto di questa commemorazione: «Oggi, il contesto contiene tre sfide principali, che ci presentano delle opportunità ma anche delle responsabilità. 1) È la prima commemorazione ad aver luogo in un’epoca ecumenica. La commemorazione comune, quindi, è un’occasione per approfondire la comunione tra cattolici e luterani. 2) È la prima commemorazione che avviene nell’epoca della globalizzazione. Di conseguenza la commemorazione comune deve includere le esperienze e le prospettive dei cristiani del Sud e del Nord del mondo, dell’Oriente e dell’Occidente. 3) È la prima commemorazione a dover fare i conti con la necessità di una nuova evangelizzazione in un tempo segnato sia dalla proliferazione di nuovi movimenti religiosi sia, nel contempo, dalla crescita della secolarizzazione in molte parti del mondo. Di conseguenza la commemorazione comune ci presenta l’opportunità e l’onere di dare una testimonianza comune di fede».

Il 31 ottobre 2016 Papa Francesco si è recato a Lund in Svezia, dove fu fondata settant’anni fa la Federazione luterana mondiale, ed ha partecipato a una commemorazione “ecumenica” congiunta per l’avvio delle celebrazioni per il 500° anniversario della Riforma di Lutero. La “scelta svedese” ha voluto essere tra l’altro il segno, il riconoscimento che la ricerca di unità tra le diverse confessioni cristiane non è legata solo a un passato da riconciliare ma guarda avanti. La scelta di Lund dimostra che la Chiesa luterana non esiste solo in Germania ma è una realtà globale.

  • Alcune date (ma non tutte)[5]

Martin Luther (1483-1546) fu costantemente assillato dalla domanda: «Come posso avere un Dio misericordioso?». E trovò quel Dio misericordioso nel Vangelo di Gesù Cristo. «Nel Cristo crocifisso si trovano la vera teologia e la conoscenza di Dio». Tutta la sua dottrina parte da una nuova comprensione di Rm 1,17: «è in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede».

  • 10 novembre 1483: nasce ad Eisleben[6] (l’odierno Land di Sassonia-Anhalt), da una famiglia contadina, ma il padre aveva intrapreso un’attività di traffico del rame discretamente redditizia, tant’è che lui accede all’università (studia diritto).
  • luglio 1505: mentre era in viaggio fu sorpreso da un violento temporale alle porte di Stotterheim, un villaggio sassone. Caduto a terra per gli effetti di un fulmine poco distante, rivolse una promessa a Sant’Anna; se si fosse salvato avrebbe abbracciato la vita monacale. Il 17 luglio 1505, a ventidue anni, entrò nel convento agostiniano di Erfurt, dove approfondì gli scritti di San Paolo e Sant’Agostino.
  • 1507: fu anche ordinato sacerdote
  • 1510: fece un viaggio a Roma in rappresentanza del suo convento, per questioni interne all’Ordine. In quell’occasione fece innanzitutto un pellegrinaggio nella Città Santa: così era vissuto da parte di ogni fedele l’andare a Roma… A Roma trovò una corte, quella di un sovrano del ‘500 (Giulio II della Rovere, 1503-1513). Fu colpito dalla vita mondana della Curia papale, dal fatto che molti ecclesiastici vivevano distanti dal vangelo: ma all’epoca il papato era un principato territoriale, il che implica una sensibilità profondamente diversa da quella di oggi. Dopo il viaggio il travaglio interiore!
  • 1513: l’esperienza della torre, ovvero l’evento decisivo che operò in lui una profonda «conversione» intellettuale e spirituale. Lutero era stato nominato da poco professore di Sacra Scrittura nell’università di Wittenberg, ed era sua usanza ritirarsi a studiare nella torre del castello. Lì, un giorno dell’anno suddetto, alla lettura del v. 17 del primo capitolo della Lettera di S. Paolo ai Romani […] ebbe un’improvvisa illuminazione sulla natura della giustificazione[7]. Lutero vi vuol vedere, non come i «filosofi» la giustizia di Dio premiatrice del bene e punitrice del male (la cosiddetta giustizia retributiva: «Se ti comporti male, Dio ti condanna; se ti comporti bene, Dio ti premia»), ma un’assolutoria completa da parte di Dio, senza alcun merito corrispondente da parte umana. L’uomo, egli dice, è completamente corrotto per il peccato originale e ogni sua opera non può essere che peccato. La concupiscenza rimane in lui invincibile e perdura allo stato di vero peccato personale anche nel cristiano battezzato. La legge è santa, ma non ha forza per rendere l’uomo in grado di praticarla. Anche quando pratica la legge, l’uomo nella migliore delle ipotesi riesce solo in qualche cosa, ma soprattutto cerca se stesso, ha il cuore ripiegato su se stesso, finisce per autocelebrarsi come il fariseo al tempio, si serve della legge per rendersi giusto davanti a Dio. Meditando e studiando il salterio, Lutero scopre che la giustizia di Dio è la sua fedeltà. Dio è fedele all’uomo perché rimane fedele alla sua misericordia verso l’uomo. Dio rimane fedele a se stesso, per cui non può far altro che essere misericordioso. Il ragionamento di Lutero si può riassumere così:
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  • la legge mette l’uomo di fronte al suo peccato;
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  • quando l’uomo riconosce il suo peccato, riconosce giusto Dio che gli parla nella Parola;
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  • e quando l’uomo riconosce giusto Dio nelle sue parole, quando l’uomo fa proprio il giudizio di Dio che assolve (detto altrimenti, quando l’uomo crede), Dio lo considera giusto. Dare ragione a Dio nelle sue parole significa aderire a Lui con quella fede per cui l’uomo si trova salvato: in Cristo, Dio dona all’uomo la sua salvezza.

La legge di Dio ci condanna, ma la parola di Dio non termina con la legge, bensì culmina nel vangelo, cioè Cristo morto e risorto per la nostra salvezza[8]. Ogni azione umana è inutile in rapporto alla salvezza; le opere buone non vi contribuiscono positivamente; esse sono soltanto il frutto della fede viva, ma non hanno la virtù di predisporre alla giustificazione. La fede sola, cioè la fiducia certissima nei meriti della morte di Cristo in croce, è quella che ci salva e ci fa beati. La giustizia di Cristo viene applicata esternamente al peccatore, in modo da coprire e nascondere il suo peccato, mentre in realtà egli rimane peccatore com’era prima (homo simul peccator, simul iustus). La giustificazione quindi non consiste, come insegna la dottrina cattolica, nella purificazione, rigenerazione e santificazione interiore dell’anima, ma nella non-imputazione del peccato (“iustitia imputata” o forense); da parte dell’anima è una cosa passiva, non attiva (gratia = misericordia Dei, favor Dei)[9]. La santificazione ci verrà donata alla fine della nostra vita, quando entreremo nel cielo. In quel momento ci verrà anche donata la vera, interna giustizia[10] che per ora ci è soltanto promessa. Il linguaggio della non-imputazione è stato fatto suo soprattutto da Melantone, ma certamente è anche di Lutero. Con questo concetto egli voleva sottolineare che la giustizia con cui siamo considerati giusti è quella di Dio, non la nostra. Ora, la parola di Dio non è solo parola, è anche azione, è parola efficace, per cui quando Dio dichiara l’uomo giusto, questi è veramente giusto[11]. Lutero sostiene che nel giustificato il peccato rimane[12] perché l’uomo è continuamente esposto alla tendenza di andare contro la legge di Dio, cioè di ripiegarsi su se stesso. Abbiamo detto che l’uomo è considerato giusto da Dio nel momento in cui fa proprio il giudizio di Dio che assolve; ma se l’uomo esce dalla prospettiva del coram Deo per riprendere la prospettiva del “davanti agli altri” o del “davanti a se stesso”, è esposto al peccato. Finché resta nella prospettiva della fede, l’uomo è giusto, ma se esce da questa prospettiva, è peccatore. Tutti i tentativi per giustificarsi davanti a Dio sono un tentativo umano destinato a fallire, che non portano da nessuna parte: sono un tentativo dell’uomo di giustificarsi davanti a se stesso! Da questo punto di vista, dobbiamo riconoscere che Lutero insegna una vera e propria mistica dell’atto di fede[13].

  • 31 ottobre 1517: affissione delle 95 tesi, evento enfatizzato, come si è detto.
  • 15 giugno 1520: la bolla Exsurge Domine, con cui Lutero è scomunicato da Leone X (1513-1521).

Tra il giugno e l’ottobre 1520 Lutero pubblicò tre opere fondamentali:

  1. Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, senza dubbio il più importante degli scritti luterani redatti in tedesco, nel quale — oltre a negare la distinzione fra laici e sacerdoti sostenendo la tesi del «sacerdozio universale»[14] — Lutero contestava al papato romano il diritto di convocare i concili e di interpretare le Scritture. Con ciò l’autore muoveva un’aspra critica all’istitu­to stesso della Chiesa e avanzava la proposta di una sua riorganizzazione secondo uno spirito eminentemente nazionale e antilatino;
  2. Della cattività babilonese della Chiesa, un vero e proprio trattato teologico in lingua latina, nel quale tra l’altro si negava valore ai sacramenti, con l’eccezione però del battesimo e dell’eucarestia, la cui validità veniva confermata sia pure sulla base di alcune modifiche dì natura teologica;
  3. Della libertà del cristiano, anch’essa in lingua latina, che, sviluppando il concetto agostiniano della “libertà interiore” propria dell’uomo, proclama­va il principio del libero esame e della piena libertà dì coscienza nell’interpretare la materia di fede e soprattutto negava in maniera decisa qualsiasi valore dì merito alle opere “buone” (preghiera, elemosine, riti in ordine alla salvezza eterna dell’anima)[15].
  4. 25 maggio 1521: l’editto di Worms, ovvero il bando imperiale di Carlo V contro Lutero e i suoi seguaci, con cui si ordinava tra l’altro che i suoi scritti fossero dati al fuoco. Quanto a Lutero, il bando non ebbe per la sua persona conseguenze dannose, perché al momento dell’emissione dell’editto imperiale egli si trovava già al sicuro. Il 25 aprile aveva lasciato Worms e lungo la strada era stato “rapito” (una finta aggressione) e portato in salvo nel castello di Wartburg, sotto la protezione del principe elettore di Sassonia Federico III il Saggio[16]. Questi aveva lasciato che Lutero e i suoi seguaci si affermassero, anzi a poco a poco si era avvicinato alle loro idee fino ad aderirvi sul piano intimo e profondo. La sua adesione alla Riforma avviò un progressivo sgretolamento dell’unità religiosa e culturale del vecchio continente.
  5. 1524-1525: la polemica fra Erasmo e Lutero – la guerra dei contadini.

Nel 1524 Erasmo scrive il De libero arbitrio e l’anno dopo Lutero gli risponde con il De servo arbitrio. Erasmo è un umanista e mette in evidenza le potenzialità dell’uomo, Lutero invece la sua miseria e la distanza abissale che c’è fra l’uomo e Dio[17]. Se­condo il suo celebre paragone, «la volontà umana, posta tra Dio e Satana, è simile a un giumento. Quando Dio lo cavalca, esso va dove Dio vuole che vada…, quando invece lo cavalca Satana, esso va dove Satana vuole che vada. Non è in suo arbitrio cor­rere o cercare l’uno o l’altro di questi due cavalcatori, ma essi stessi combattono tra loro per impadronirsi di lui e posseder­lo». Va notato, tuttavia, che il determinismo luterano non è totale[18]: l’uomo è libero di scegliere tra i mezzi necessari alla sua vita economico-sociale; non è libero riguardo al fine ultimo.

Nel maggio del 1524 ebbe inizio una sommossa di contadini in cui l’elemento religioso e quello profano sono assai fortemente mescolati: la libertà cristiana che Lutero aveva proclamato, poteva suggerire facilmente pensieri di riscatto dalla dipendenza dei proprietari terrieri tanto ecclesiastici come secolari, e di liberazione dalle tasse e dagli opprimenti oneri feudali. Furono assaltate chiese, conventi e castelli, con odio e ferocia tali che lo stesso Lutero intervenne con aspre parole incitando i principi a soffocare la rivolta, che finì schiacciata senza pietà nella battaglia di Frankenhausen (15 maggio 1525). Dopo questa battaglia, che segnò la fine della guerra dei contadini, la repressione da parte dei principi fu terribile. Ovunque si procedette a esecuzioni sommarie. Si calcola che alla fine furono sterminati, in battaglia o sulla forca, oltre 100.000 contadini. Una pagina buia che gli stessi luterani riconoscono fra gli aspetti più ambigui della Riforma.

  • 27 giugno 1525: Lutero sposa l’ex monaca Katharina von Bora. La sposa aveva 26 anni, Lutero 42[19].
  • 18 febbraio 1546: morte di Lutero nel suo paese natale, Eisleben, a circa due mesi dall’avvenuta apertura del Concilio di Trento.

La Riforma reagisce contro la pretesa, obiettivamente corsa da certe correnti dell’Umanesimo, di rendere l’uomo artefice unico della propria salvezza; però con l’assioma del sola fide e la negazione del libero arbitrio, finisce per annullare del tutto l’uomo nell’opera della propria salvezza. Il Concilio di Trento, se da una parte affermerà che il libero arbitrio non è affatto estinto, dall’altra però condividerà con la Riforma la necessità di una presa di posizione antipelagiana[20]. Lutero giustamente combatte l’occamismo[21], il quale «presenta una grande contraddizione: esso infatti non solo separa in modo abissale l’uomo naturale dalla realtà divina e nello stesso tempo lo rimette all’arbitrio divino, ma deduce dalla Bibbia l’obbligo totale per l’uomo di osservare i comandamenti di Dio ed assicura che la volontà umana, con le sue sole forze, lo può fare. Poiché se l’uomo fa ciò che dipende da lui, Dio non gli rifiuterà la grazia necessaria. Il potere dell’uomo viene così esaltato in modo fantastico, fino al pelagianesimo pratico! […]. Egli [Lutero] faceva tutto il possibile senza tuttavia avvertire in sé la coscienza di essere liberato dal peccato. Non poteva quindi che concludere di essere lui l’ostacolo, e di non fare tutto ciò che poteva. […]. La lotta di Lutero era senza via di uscita per l’errore fondamentale, dovuto al fatto che egli cercava di convincersi dello stato di grazia per via sperimentale; lo voleva sapere presente, o meglio lo voleva sentire. Per il futuro riformatore non sapere di esser in grazia di Dio e non esserlo era quasi la stessa cosa. Nessuno vorrà dire che questa era una posizione cattolica. Lutero abbatté in se stesso un cattolicesimo, che non era cattolico»[22].

  • L’intreccio fra politica e religione

Nella riforma protestante l’intreccio fra politica e religione è fin da subito molto forte. L’atteggiamento del papa nei confronti di Lutero all’inizio fu non così duro, a motivo del suo protettore, il principe elettore di Sassonia Federico III il Saggio. Il 12 gennaio 1519 infatti era morto Massimiliano I e incombeva l’elezione di un nuovo imperatore. Il candidato di Leone X per qualche tempo fu proprio il principe Federico di Sassonia: perciò egli non poteva né voleva esercitare una pressione troppo forte su di lui circa il suo “protetto” Lutero. Ma nonostante che Francesco I di Francia e Leone X si fossero adoperati alacremente in contrario, il 28 giugno 1519 i sette principi elettori elessero a Francoforte, come successore di Massimiliano I, il diciannovenne nipote del defunto imperatore, Carlo V di Spagna (1519-56), l’erede di un impero immenso, che abbracciava la Spagna e le sue colonie, Napoli, la Sicilia e i Paesi Bassi. Egli fu incoronato ad Aquisgrana nell’ottobre del 1520. Papa Leone X aveva visto con preoccupazione la prospettiva dell’unione delle due corone nella persona di Carlo V: ecco perché aveva parteggiato per il principe Federico di Sassonia. Ma una volta eletto Carlo V, cessarono la ragioni da parte del papa della tolleranza nei confronti di Lutero. Carlo V, da parte sua, era intimamente convinto della verità della dottrina cattolica, concepiva l’ufficio imperiale secondo l’idea medievale di organo di tutela e di difesa della Chiesa e del papato, inoltre vedeva nell’unica fede un elemento di coesione importante per l’impero immenso che voleva tenere unito: per tutte queste ragioni aveva interesse a far tacere Lutero. Tutta la sua vita fu spesa nell’intento di tenere unito l’impero, cosa che però non gli riuscì. Nel 1556 finì per abdicare lasciando al figlio Filippo II il regno di Spagna (, Milano, Napoli, Sicilia e Sardegna, i Paesi Bassi e le colonie americane) e al fratello Ferdinando I l’impero (le terre ereditarie degli Asburgo, le corone di Boemia e di Ungheria). Per circa 30 anni l’impero fu dilaniato da lotte violente: battuto dai protestanti, dai Turchi e dai Francesi, Carlo V decise di scendere a compromesso con gli avversari. Si giunse così alla pace di Augusta stipulata il 25 settembre 1555 tra l’imperatore e la lega dei principi luterani (Lega di Smalcalda), in base alla quale venne stabilito il principio più tardi espresso con la formula del «Cujus regio, eius (et) religio»: i sovrani territoriali avevano la libertà di scegliere fra due diverse forme di religione cristiana, quella cattolica e quella luterana, e la bassa nobiltà e tutti gli altri sudditi dovevano conformarsi alla scelta del proprio sovrano territoriale, salvo il diritto di emigrare (jus emigrandi) senza subir danni nell’onore o nella proprietà.

Il papa era a tutti gli effetti un principe territoriale: un sovrano a capo di un principato. Non poteva ragionare solo in termini di autorità spirituale. La proposta di Lutero metteva in discussione il potere temporale della Chiesa: com’era possibile che il successore di Pietro fosse a capo di uno Stato? Non è facile per l’uomo di oggi comprendere il mondo del ‘500 in cui il sacro e il profano sono un tutt’uno. Leone X, definito da Lutero “Anticristo in persona”, è niente meno che il figlio di Lorenzo de’ Medici (il Magnifico), nominato cardinale ad appena 13 anni! A fornire buoni motivi all’aperta contestazione della condotta e della teologia della Chiesa di Roma da parte di Lutero già prima del 1520 aveva contribuito in modo decisivo proprio lui, il pontefice Leone X (Giovanni de’ Medici), il quale, appena elevato all’altissima carica, si era affrettato a raccogliere fondi per la costruzione della cupola di San Pietro, invitando tutti i fedeli a fare offerte in denaro e promettendo in cambio ancora una volta indulgenze. In tale circostanza la Curia pontificia commise però l’imprudenza dì affidare la raccolta delle offerte nella provincia di Magonza e Magdeburgo al poco scrupoloso arcivescovo Alberto di Brandeburgo. Questi, infatti, dopo aver ottenuto da Roma mediante una onerosa transizione la possibilità dì incassare il 50% degli introiti derivanti dalla raccolta, si era servito per la riscossione della banca Fugger di Augusta, in quanto creditrice di una consistente somma prestatagli[23]. Ad appesantire la situazione contribuì la predicazione condotta in favore delle indulgenze dal domenicano tedesco Johann Tetzel (1465-1519),che non solo si mostrò inesatto e impreciso sul piano dottrinale nei riguardi dell’iniziativa, ma fece ricorso agli argomenti più grossolani, giungen­do a utilizzare con insistenza motti, battute e slogan coniati secondo gli schemi usuali dei proverbi popolari, sul tipo di quello seguente: «L’anima sale in cielo benedetta, quando cade il soldin nella cassetta». Tutto questo scandalizzò i Tedeschi e provocò Lutero[24].

  • Che cosa celebrare e che cosa non celebrare della Riforma[25]

Cominciamo a interrogarci intorno al verbo “celebrare” che ricorre due volte nel titolo del paragrafo. Ci si può chiedere: è il verbo appropriato? È infatti molto impegnativo: “celebrare” — dice lo Zingarelli — vuol dire “esaltare”, “lodare pubblicamente”, “festeggiare con solennità”. Non è un po’ troppo? Tanto più che nella Bibbia il verbo celebrare è riservato a Dio, al suo Nome, alle sue opere, alla sua salvezza. La Bibbia celebra le cose di Dio, non quelle degli uomini. Sarà per questo o per altri motivi, fatto sta che il verbo “celebrare” è stato abbandonato dalla Commissione cattolico-luterana tedesca che, in vista del 500° anniversario della Riforma, ha redatto un ampio documento intitolato “Dal conflitto alla comunione”, il cui fine dichiarato è proprio quello di consentire a luterani e cattolici tedeschi una “commemorazione congiunta” della Riforma: il verbo utilizzato è “commemorare”, e non “celebrare”, che viene evitato. “Commemorare” contiene la parola “memoria” e significa — dice ancora lo Zingarelli — “ricordare in pubblico e con solennità”, che però è qualcosa di assai diverso da “celebrare” [abitualmente si commemorano i defunti!].

In una linea analoga si colloca il cardinale Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, il quale, in un’intervista rilasciata nel luglio 2016 a una agenzia di stampa cattolica di Vienna ha sostenuto che la ricorrenza del 2017 suscita tre sentimenti:

  1. gratitudine per i risultati raggiunti nel dialogo tra cattolici e luterani,
  2. pentimento per le polemiche del passato,
  3. speranza di ulteriori progressi nell’incontro e nella crescita comune.

Tutto questo però, aggiunge il cardinale, non può essere espresso ricorrendo al verbo “celebrare” o “festeggiare”, né alla parola “Giubileo” [forse perché — immagino io — “Giubileo” evoca un’idea di giubilo, di gioia, di festa]: l’unica parola appropriata, secondo Koch, è “ricordo” (in tedesco gedenken) — una parola rigorosamente neutra, che prescinde da qualunque giudizio di valore: si ricordano infatti cose belle e cose brutte, eventi fausti e infausti, ricorrenze felici e sventurate.

L’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede card. Gerhard Ludwig Müller nel suo libro-intervista Rapporto sulla Speranza (BAC 2016) ha categoricamente affermato che «In senso stretto, noi cattolici non abbiamo nessun motivo di festeggiare il 31 ottobre 1517, data che si considera l’inizio della Riforma che ha portato alla spaccatura della cristianità occidentale. (…) Non possiamo accettare — ha concluso il cardinale — che esistano motivi sufficienti per separarsi dalla Chiesa».

E a questo punto sorge la domanda cruciale: che cos’è stata la Riforma globalmente considerata, una benedizione per la Chiesa, o invece una sciagura? Una risurrezione quasi miracolosa della fede e della vita cristiana o un suo fatale deragliamento? La Riforma ha davvero riformato la Chiesa, quantomeno una parte cospicua di essa, o l’ha invece irrimediabilmente deformata? Se l’ha riformata, possiamo in buona coscienza celebrarla; se l’ha deformata, non possiamo celebrarla, al massimo possiamo ricordarla, senza però festeggiarla.

Ora il titolo di questo paragrafo contiene il verbo “celebrare”. Tra i tre verbi che si possono adoperare in riferimento alla Riforma del XVI secolo in occasione del suo 500° anniversario — celebrare, commemorare, ricordare —, ho scelto [parla il valdese prof. Paolo Ricca] il primo, pur consapevole dei rischi che questo comporta: il rischio, ovvio, di una segreta autocelebrazione della chiesa riformata di oggi con la copertura dei grandi Riformatori del XVI secolo; e il rischio, ben maggiore, di dover arrossire trovandomi in loro compagnia, essendo troppo grande la distanza tra la passione per l’Evangelo che li animò e la mia tiepida fede, tra la loro consacrazione alla causa di Dio nel mondo e la mia, tra la qualità del loro cristianesimo e la mia, per cui mi sono chiesto e mi chiedo se io sia degno di celebrare la Riforma.

E se lo faccio in vostra presenza, sia pure con timore e tremore, è perché ritengo che la Riforma, globalmente considerata, sia stata un’opera di Dio, compiuta certo da uomini e quindi, come vedremo, segnata dal peccato e dalla colpa, ma pur sempre opera di Dio, da lui avviata, accompagnata e portata a compimento. E perché credo che la Riforma sia stata opera di Dio? Perché i Riformatori stessi sono stati tutt’altro che gli iniziatori e promotori della Riforma; l’hanno piuttosto subita, sono stati trascinati loro malgrado e controvoglia in un’avventura più grande di loro. Tanti testi lo provano, ad esempio questo:

«La Chiesa ha bisogno di una riforma, e questa non può essere il compito di un solo uomo, cioè il pontefice, né di molti, cioè i cardinali […] ma di tutto il mondo, anzi di Dio soltanto. Ma il tempo di questa riforma lo conosce solo Colui che ha fondato i tempi»[26].

Siamo nel 1518, la Riforma è già iniziata, ma Lutero non ne è affatto consapevole e soprattutto non ha la minima idea di essere stato lui ad avviarla. In un altro testo bellissimo di Lutero del 1524, la Riforma viene paragonata a un “acquazzone estivo”, un “temporale passeggero” che viene e va, e non torna dove è già stato. Bisogna allora approfittare e «afferrare la grazia e la Parola di Dio finché sono presenti» perché non è detto che lo siano sempre, proprio perché sono opera di Dio, e non degli uomini, proprio come un acquazzone estivo che viene e che va indipendentemente dalla volontà umana, così è la Riforma, che sopraggiunge improvvisa e imprevista, coinvolge uomini e donne, ma al tempo stesso li precede e li trascende. Dello stesso tenore è questo testo di Calvino che conclude una sua Lettera all’imperatore Carlo V, del 1543:

«La riforma della Chiesa è opera di Dio, ed è altrettanto indipendente dalla speranza e dal pensiero dell’uomo quanto lo è la risurrezione dei morti o un altro miracolo di questa fatta. Sicché, quanto alla possibilità di fare qualcosa a tale scopo, non bisogna attendere che si manifesti la buona volontà della gente o che mutino le situazioni, ma bisogna farsi strada attraverso la disperazione. Dio vuole che il suo Vangelo sia predicato. Ubbidiamo a quest’ordine, andiamo dov’egli ci chiama. Quale sarà il risultato, non è cosa che deve preoccuparci».

Avete sentito bene: «bisogna farsi strada attraverso la disperazione»: che cos’è questa “disperazione”? È la desperatio fiducialis di Lutero, la disperazione di sé, e la totale fiducia in Dio proprio perché l’opera della Riforma è sua e non nostra, ed è «altrettanto indipendente dalla speranza e dal pensiero dell’uomo quanto lo è la risurrezione dei morti o un altro miracolo di questa fatta». Perciò celebro la Riforma, perché la riconosco come opera della Parola di Dio, pur in mezzo a disubbidienze, errori, infedeltà e contraddizioni. Questo significa che celebrare la Riforma non significa celebrare tutta la Riforma. Ci sono aspetti della Riforma che non possiamo né vogliamo celebrare, ma che dobbiamo ricordare a nostra vergogna e umiliazione. Ne elenco quattro senza avere il tempo di illustrarli e situarli nel loro contesto storico, ricordando che i Riformatori erano uomini del XVI e non del XXI secolo e che la legislazione civile e penale di allora era molto diversa da quella di oggi.

  1. Il primo aspetto della Riforma che non possiamo né vogliamo celebrare è il ricorso all’autorità politica e alla legge civile per reprimere e punire i dissidenti, in particolare gli Anabattisti[27]. In un primo tempo Lutero aveva sostenuto la libertà di ciascuno di scegliere ed esercitare la religione conforme alla sua coscienza sulla quale non si può usare la violenza. Poi ha cambiato idea e l’Anabattismo è stato oggetto di una spietata persecuzione, tanto da parte cattolica quanto da parte protestante[28]. Questa è una pagina insanguinata e dolorosa per la quale ci umiliamo davanti a Dio, alla memoria delle vittime e alla storia.
  2. In secondo luogo non possiamo certo celebrare la vittoria dei principi sui contadini di Frankenhausen il 15 maggio 1525 che Lutero ha approvato e persino incoraggiato, né possiamo celebrare e capire l’incapacità di Lutero di capire la posizione dei contadini che rivendicavano alcune libertà civili fondamentali in nome della libertà cristiana: i contadini non avevano altra cultura — se non quella cristiana — a cui ricorrere per fondare una iniziativa di liberazione e Lutero ha torto di denunciare come cristianamente illegittimo il tentativo dei contadini di inverare la libertà cristiana in libertà civili e sociali. Anche quella del massacro di 8.000 contadini è una pagina insanguinata e dolorosa per la quale noi, figli della Riforma, ci umiliamo davanti a Dio, alla memoria delle vittime e alla storia.
  3. In terzo luogo non possiamo certo celebrare la posizione finale di Lutero (ma non soltanto sua) nei confronti degli Ebrei, in particolare con il suo ultimo scritto su “Gli Ebrei e le loro menzogne”. Ci sono in questo scritto delle affermazioni che ci fanno male, così male che non osiamo neppure riferirle tanto sono pesanti e irricevibili. Anche questa è una pagina oscura per la quale noi, figli della Riforma, ci umiliamo davanti a Dio, alla storia e al popolo ebraico.
  4. C’è infine un’ultima pagina che non possiamo celebrare: la rottura tra Lutero e Zwingli a conclusione della controversia sulla Cena del Signore, consumatasi a Marburgo nel 1529[29]. Lì la Riforma protestante si divise e le due parti fecero l’amara scoperta che la Parola di Dio che li aveva uniti su tanti fronti, ora li divideva nell’interpretazione della presenza di Cristo nella Cena. Questa divisione fu una sconfitta della Riforma e noi, suoi figli, ci umiliamo davanti a Dio perché i nostri padri non furono in grado di attuare, per l’interpretazione della Cena, quella unità nella diversità che è la regola d’oro della comunione cristiana.

Queste quattro sono le cose principali (non le uniche) che noi non celebriamo mentre ci accingiamo a celebrare la Riforma. E giungiamo finalmente a dire che cosa celebriamo della Riforma e da questo risulta più chiaro perché la celebriamo (e non la commemoriamo o ricordiamo soltanto). Che cosa celebriamo della Riforma? Suddivido questo punto in due parti: nella prima elencherò alcuni aspetti della Riforma che intendiamo celebrare e che intitolerò: “Le cinque perle della Riforma”; nella seconda indicherò la ragione di fondo per celebrare la Riforma considerata nel suo insieme e nel suo esito finale.

“Le cinque perle della Riforma”. Inutile dire che sono molte di più, ma queste cinque mi sembrano le principali.

  1. La prima perla è senza alcun dubbio il solus Christus, che non vuol dire che non c’è altro che Cristo, come se non ci fosse il Padre e lo Spirito Santo e tutto il resto, ma vuol dire che in Cristo, e non altrove, troviamo ogni cosa. Sentite questa stupenda pagina di Calvino: «Vediamo quindi che la totalità ed i singoli elementi della nostra salvezza sono rinchiusi in Gesù Cristo; bisogna perciò guardarsi dal farne derivare la minima porzione da altra fonte. Se cerchiamo salvezza, il nome stesso “Gesù” [che vuol dire “Dio salva”] ci insegna a cercarla in lui. Se cerchiamo i doni dello Spirito Santo, li troveremo nella sua consacrazione. Se cerchiamo forza, è situata nella sua sovranità. Se vogliamo trovare dolcezza e benignità, la sua natività ce la presenta: in essa egli è stato reso simile a noi per imparare ad essere pietoso. Se domandiamo redenzione, la sua passione ce la dà. Nella sua condanna, troviamo la nostra assoluzione. Se desideriamo che la maledizione ci sia allontanata, lo otteniamo nella sua croce. La soddisfazione, l’abbiamo nel suo sacrificio; la purificazione, nel suo sangue; la nostra riconciliazione è avvenuta mediante la sua discesa agli inferi. La mortificazione della nostra carne si trova nel suo sepolcro; la novità di vita, nella sua risurrezione, nella quale abbiamo anche la speranza dell’immortalità. Se cerchiamo l’eredità celeste, ci è assicurata dalla sua ascensione. Se cerchiamo aiuto e conforto e abbondanza di ogni bene, l’abbiamo nel suo regno. Se vogliamo presentarci al giudizio [finale] con tranquillità, possiamo farlo poiché è il nostro giudice. In lui insomma è il tesoro di tutti i beni e da lui dobbiamo attingere per essere saziati, non altrove»[30].

Ecco allora il senso del solus Christus. In lui c’è tutto, solo in lui, tutto in lui. In lui trovi Dio, in lui trovi te stesso. Questa è davvero la perla di gran prezzo. Di conseguenza, il sola Scriptura di Lutero significa che la rivelazione è Cristo[31].

  • Seconda perla. Lutero a Worms, davanti all’imperatore, al legato pontificio, pronuncia le parole che conoscete, ma che riascoltiamo sempre volentieri: «Se non sarò confutato da testimonianze della Scrittura e chiare motivazioni razionali, poiché non credo né al papa né ai concili, dato che è chiaro che si sono sbagliati e che si sono contraddetti, io sono vinto dalle parole della Scrittura che ho addotto, e fintanto che la mia coscienza è prigioniera della Parola di Dio non posso né voglio ritrattarmi poiché non è sicuro né salutare agire contro la [propria] coscienza».

Qui nasce il cristiano protestante. «Io sono vinto» dalle parole della Scrittura. La Chiesa e l’impero chiedevano a Lutero di deporre la sua coscienza ai loro piedi: la nostra autorità vale più della tua coscienza. Ma la Parola di Dio vale di più della vostra autorità. «Io sono vinto» perché sono convinto dalle parole della Scrittura. La coscienza umana può essere vinta solo se è convinta. Se non è convinta può essere violata, forzata, violentata, ma non vinta. Questo è il cristiano protestante: un uomo, una donna vinta dalle parole della Scrittura. Questa è la seconda preziosa perla, la coscienza invincibile, prigioniera della Parola di Dio. La Scrittura è parola di Dio che converte, è parola che va offerta agli uomini[32]: di qui la necessità di tradurla nelle lingue correnti e diffonderla tra il popolo di Dio. Non a caso le parti più interessanti dell’immensa produzione letteraria di Lutero sono proprio la traduzione della Bibbia, i commenti alla Scrittura (ai Salmi, alla lettera ai Romani, etc.).

  • La grazia incondizionata. La chiesa del tempo di Lutero predicava anch’essa la grazia, ma la grazia condizionata: «sei perdonato a condizione che tu esegua le opere di penitenza». Lutero scopre che l’Evangelo cristiano è grazia incondizionata: «Sei perdonato, va’ in pace». La chiesa del tempo predicava una grazia meritata; Lutero scopre che l’Evangelo cristiano è grazia immeritata. La chiesa del tempo predicava una penitenza che si poteva evitare comprando un’indulgenza; Lutero denuncia l’assurdità di questo mercato scoprendo che l’Evangelo cristiano è grazia gratuita.

È proprio la scoperta dell’Evangelo della grazia incondizionata, immeritata e gratuita che ha trascinato Lutero fuori dalla cella del monastero e fuori dall’aula universitaria, nel vivo di una storia tumultuosa che ha segnato drammaticamente la sua vita e che è continuata oltre la sua morte. Questa è dunque la terza preziosa perla: l’Evangelo come grazia incondizionata, immeritata, gratuita. Noi certo siamo stati avvertiti da Dietrich Bonhoeffer che nelle chiese, proprio anche in quelle che si richiamano alla Riforma, circola in grande quantità quella che egli chiama “grazia a buon mercato”. Ma la grazia incondizionata, immeritata e gratuita è tutt’altra cosa che la grazia a buon mercato.

  • La quarta perla è la libertà del cristiano. «Il cristiano è un libero signore, e non è sottoposto a nessuno. Un cristiano è un servo zelante in ogni cosa, ed è sottoposto ad ognuno». Questo è la celebre ouverture del trattato sulla libertà cristiana del 1520 — un gioiello della letteratura cristiana di tutti i tempi — che si conclude con queste parole altrettanto famose: «Da tutto ciò

[che precede]

, segue la conclusione che un cristiano vive non in se stesso, ma in Cristo e nel prossimo, in Cristo per la fede e nel prossimo per amore. Per la fede sale al di sopra di sé in Dio; da Dio torna a scendere al di sotto di sé per amore, e rimane per sempre in Dio e nel divino amore…».

La libertà cristiana è dunque figlia della fede e dell’amore. Come figlia della fede, la libertà è sovrana perché sottoposta solo a Dio e libera nei confronti dei poteri terreni di qualunque tipo. Come figlia dell’amore, la libertà è libertà di servire, che è la più alta di tutte le libertà. Questa è dunque la quarta perla preziosa: la libertà, figlia della fede e dell’amore.

  • Infine la quinta perla, che però è difficile riassumere in una parola sola. Émile G. Leonard, il grande storico del Protestantesimo, intitola il capitolo conclusivo del suo primo volume — capitolo dedicato a Calvino: “Calvino, fondatore di una civiltà” e scrive: «È toccato a Calvino, un francese e un giurista, di creare, più che una nuova teologia, un uomo nuovo e un mondo nuovo». Ecco la quinta perla: la Riforma ha creato non solo, come vedremo tra poco, un nuovo modello di chiesa, ma una nuova civiltà, un nuovo tipo di cristiano: l’uomo protestante. Eccone una descrizione: «Calvino ha plasmato un tipo d’uomo altero e duro, cosciente di dover rispondere della propria vita soltanto a Dio e alla sua coscienza, cioè un tipo d’uomo libero e responsabile di sé. Da Ginevra, questa Sion del nuovo popolo di Dio, ha avuto inizio una rivoluzione internazionale nell’accezione più forte del termine […] Questo uomo libero e responsabile davanti a se stesso, che i suoi avversari condannavano in quanto animato da un “incorreggibile spirito repubblicano”, è diventato un fermento del mondo occidentale, ben oltre i limiti della diaspora calviniana […] è il fattore più attivo dello sviluppo delle società occidentali». L’uomo protestante non so, a dire il vero, se esiste ancora. Ma certamente è esistito, e forse, qua o là, ne esiste ancora e sempre di nuovo qualche esemplare.

Ecco dunque le perle principali che celebriamo celebrando la Riforma: Cristo solo; la coscienza prigioniera della Parola di Dio; la grazia incondizionata, immeritata e gratuita; la libertà del cristiano; la civiltà protestante.

Ma dobbiamo fare un passo in più e chiederci: che cosa ha prodotto la Riforma? Qual è stato il suo esito ultimo? A questa domanda si risponde di solito: l’esito ultimo della Riforma è stato la divisione della Chiesa d’Occidente. Non credo che la categoria “divisione” ci aiuti a capire quel che è successo, a parte il fatto che penso che la divisione sia stata provocata più dalla scomunica della Riforma che dalla Riforma stessa. Quello che la Riforma ha prodotto non è stato la divisione della Chiesa (che pure c’è stata), ma la nascita di un nuovo modello di chiesa, la nascita, come diceva già Schleiermacher (1768-1834), di «una forma distinta di comunità cristiana» — distinta dalla forma cattolico-romana e dalla forma ortodossa. Non si tratta ovviamente di una nuova chiesa. I Riformatori sarebbero inorriditi al solo pensiero di aver creato una nuova chiesa: essi infatti confessano con gli antichi simboli cristiani la “chiesa una, santa, cattolica, apostolica”; non ci possono essere due chiese perché non ci possono essere due “corpi di Cristo”; all’unico Capo corrisponde un unico corpo.

Nessuna nuova chiesa nasce con la Riforma, ma — questo sì — un nuovo modello dell’unica chiesa cristiana. In questo senso la Riforma può essere considerata anche come un fenomeno di «ecclesiogenesi» (la parola è di Leonardo Boff), cioè di produzione di chiesa e non solo di una sua riforma, sia pure radicale. Non credo quindi che la parola “Riforma” esprima in modo adeguato quello che accade nella cristianità europea nella prima metà del XVI secolo.

All’inizio, sì, voleva essere una riforma, ma ben presto divenne qualcos’altro, qualcosa di nuovo, di imprevisto, un ripensamento generale del cristianesimo storico alla luce della Sacra Scrittura; le parole-chiave del discorso cristiano (pentimento, fede, opere, legge, giustizia di Dio, libertà, verità, ubbidienza, santità, autorità, chiesa, mondo, ecc…) sono state ridefinite e riempite di sostanza biblica. Il protestantesimo non è, dunque, solo cattolicesimo riformato; è cristianesimo sostanziato di Bibbia.

Perché allora celebrare la Riforma? Perché con essa è nato un nuovo modello di chiesa nel quale ha preso corpo un nuovo tipo di cristianesimo. Sia pure in una condizione di divisione, la cristianità europea, con la Riforma, si è arricchita. E questo noi ci apprestiamo a festeggiare, tanto più oggi che, come cristiani europei, non siamo più divisi come allora e stiamo passando — e per molti di noi siamo già passati — dalla divisione alla condivisione. E com’è questo cristiano che sta vivendo la transizione dalla divisione alla condivisione? Lo ha descritto bene Karl Barth nel “Commento alla Lettera ai Romani di San Paolo” del lontano 1922: «Egli non si affretta, ma attende. Egli non riposa, ma veglia. Egli non critica, ma spera. Egli non ammaestra, ma prega, o ammaestra in quanto prega. Egli non si fa avanti, ma sta indietro. Egli non è in nessun posto perché è dovunque».

Va da sé che non possiamo né vogliamo celebrare la divisione della Chiesa d’Occidente avvenuta con la Riforma del XVI secolo. Ma non è affatto chiaro quanto questa divisione vada addebitata alla Riforma e quanto alla scomunica della Riforma. Non solo, ma non c’è alcun dubbio che la Riforma protestante ha molto accelerato il processo sfociato nella Riforma cattolica, che fu due cose in una: Controriforma (contro la Riforma protestante) e Riforma cattolica — e le due Chiese — quella cattolica romana e quella protestante, sprigionarono molte energie cristiane che con ogni probabilità non ci sarebbero state se non ci fosse stata in ciascuna delle due la presunzione di essere la vera Chiesa di Cristo, e di doverlo dimostrare.

  • L’articulus stantis et cadentis ecclesiae

La dottrina della giustificazione per mezzo della sola fede, accompagnata tosto dalla negazione del libero arbitrio e integrata con l’affermazione della certezza della salute in colui che crede con fiducia (1516), è il centro dominante del pensiero teologico di Lutero […] e il principio materiale del protestantesimo (l’articulus stantis et cadentis ecclesiae). Lutero non seppe rendersi conto che era scivolato sulla via deviatrice del soggettivismo religioso e dello spiritualismo esagerato, né che la sua tesi di un’attività di Dio esclusiva nella giustificazione (solus Deus) senza la cooperazione di alcun elemento creato, comportava già in radice il ripudio dei sacramenti, del sacerdozio, del sacrificio, dell’indulgenza e della gerarchia, cioè di tutta la compagine di una Chiesa fondata sul diritto divino[33].

Il nocciolo della prospettiva di Lutero sta tutto nella fondazione della giustizia del credente non già sulle opere dell’uomo ma sulla iustitia Dei in un quadro di assoluto cristocentrismo. […]. Là dove questa giustificazione è chiarita con la tesi del «sola fide», ogni realtà che anteceda o accompagni l’azione giustificante di Dio — come i sacramenti, la chiesa e il ministero ordinato — è vista come una pretesa farisaica di autogiustificazione che ricade sotto l’anatema con cui Paolo colpisce chiunque predichi un altro evangelo. L’agire salvifico di Dio è reale in Gesù ma estraneo a noi: solo là dove non produce nessuna qualità creata è accolto come vangelo di grazia e non come il principio di un processo di autogiustificazione. L’habitus, di conseguenza, è ripudiato come una assurdità, come l’espressione di una autonomia umana alternativa al Cristo che giustifica[34].

Con il «sola fide», d’ora in poi il cristianesimo riformatore di qualsiasi provenienza si vedrà nettamente differenziato tanto dalla tradizione magisteriale del medioevo, quanto dal magistero cattolico ufficiale, specialmente a partire dal concilio di Trento. […]. In riferimento alla ragione più remota, il «sola fide» esclude radicalmente ogni opera ed ogni prestazione dell’uomo, sia in preparazione come in attuazione del proprio essere giustificato ad opera di Dio. La fede è l’«atteggiamento del puro ricevere», stando ad una formulazione ricorrente degli studi su Lutero. Lutero conferma questa sua tesi sostenendo che la fede non va scambiata per un’”opera”, ma è prodotta interamente da Dio, interamente da Cristo, interamente dallo Spirito Santo, interamente dalla Parola di Dio nella forza dello Spirito. […]. La fede e la giustizia di fede precedono le opere buone, come l’albero precede i frutti, non viceversa. […]. La fede si “incarna”, per così dire, nelle opere, in esse si manifesta come realtà e forza trasformante, cosicché la mancanza di opere buone ci autorizza a dubitare che la fede stessa sia presente[35].

  • Il decreto sulla giustificazione: la formula “ex iniusto fit iustus

Il Concilio di Trento approvò il decreto sulla giustificazio­ne il 13 gennaio 1547. Esso consta di un prologo, sedici capito­li, trentatré canoni. Lo schema è il seguente:

  • prologo, che stabilisce il valore dogmatico definitorio di tutto il decreto.
  • I, 1-4: necessità ed esistenza della giustificazione cristiana[36]. La descrizione della giustificazione è al capitolo 4: «[…] la giustificazione del peccatore è il passaggio dallo stato in cui l’uomo nasce figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e “di adozione dei figli di Dio” [Rm 8,15], per mezzo del secondo Adamo, Gesù Cristo, nostro Salvatore; questo passaggio, dopo l’annuncio del Vangelo, non può avvenire senza il lavacro della rigenerazione o senza il desiderio di ciò» (DH 1524).
  • II, 5-6: ne­cessità di una preparazione alla giustificazione, in cui l’iniziati­va è della grazia ma l’uomo deve collaborare[37]. Come prepararsi è detto al capitolo 6: «Gli uomini si dispongono alla giustificazione stessa [can. 7 e 9], quando stimolati e aiutati dalla grazia divina, ricevendo la fede mediante l’ascolto [cfr Rm 10,17], si volgono liberamente verso Dio, credendo vero ciò che è stato divinamente rivelato e promesso [cann. 12-14], e specialmente che il peccatore è giustificato da Dio col dono della sua grazia, “in virtù della redenzione realizzata in Cristo Gesù” [Rm 3,24]» (DH 1526). Il can. 4 afferma: «Se qualcuno dice che il libero arbitrio dell’uomo, mosso e stimolato da Dio, non coopera in nessun modo esprimendo il proprio assenso a Dio, che lo muove e lo prepara a ottenere la grazia della giustificazione; e che egli, se lo vuole, non può rifiutare il suo consenso, ma come cosa inanimata resta assolutamente inerte e gioca un ruolo del tutto passivo: sia anatema» (DH 1553). Il libero arbitrio sebbene ferito, è in grado di accogliere la grazia e di cooperare: se da una parte l’uomo non può essere giustificato davanti a Dio con le sole sue opere (can. 1), dall’altra il libero arbitrio dopo il peccato di Adamo non è affatto perduto ed estinto (can. 5). Si tratta comunque di una cooperazione libera dell’uomo che non deriva dalla sua autonomia ma che è sostenuta dalla «grazia preveniente di Dio per mezzo di Gesù Cristo», dalla «grazia che spinge e aiuta» (DH 1525; cfr pure DH 1554)[38]. […]. Naturalmente anche per Trento questa cooperazione ricade sotto il primato e l’iniziativa assoluta dell’agire divino della grazia. Non a torto, quindi, negli ultimi tempi anche certi teologi evangelici si son chiesti se si sarebbe mai giunti alla Riforma nel caso in cui un documento come quello sulla giustificazione del concilio di Trento fosse stato composto alcuni anni prima. Comunque sia, certo è che Trento, nonostante ogni opposta accentuazione, ha ripreso e riaffermato l’istanza luterana del primato della grazia[39].
  • III, 7: natura della giustificazione cristiana, esaminata nelle sue cause: finale, mer­itoria, strumentale e formale[40]. La definizione della giustificazione è al capitolo 7: «A questa disposizione o preparazione segue la stessa giustificazione, che non è una semplice remissione dei peccati [can. 11], ma anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, mediante la libera accettazione della grazia e dei doni che l’accompagnano, per cui da ingiusto diviene giusto e da nemico amico, così da essere “erede secondo la speranza della vita eterna” [Tt 3,7]» (DH 1528). Il Concilio afferma la dottrina della giustizia inerente, cioè che trasforma l’uomo dal di dentro. È una giustizia interiore che rende l’uomo giusto (homo ex iniusto fit iustus), non una giustizia applicatagli esternamente in modo da coprire e nascondere il suo peccato, mentre in realtà egli rimane peccatore com’era prima (homo simul peccator, simul iustus). Per cui il can. 11 dispone: «Se qualcuno afferma che gli uomini sono giustificati o per la sola imputazione della giustizia del Cristo, o per la sola remissione dei peccati, escluse la grazia e la carità che è riversata nei loro cuori per mezzo dello Spirito Santo

[cfr Rm 5,5]

e inerisce a essi [atque illis inhaereat]; o anche che la grazia, con cui siamo giustificati, è solo favore di Dio [favorem Dei]: sia anatema» (DH 1561). Quanto alle cause di questa giustificazione, esse sono:

  • «causa finale, la gloria di Dio e del Cristo e la vita eterna;
    • causa efficiente la misericordia di Dio, che gratuitamente ci purifica e ci santifica [cfr 1Cor 6,11] […];
    • causa meritoria è il suo dilettissimo unigenito e Signore nostro Gesù Cristo, il quale […] ci ha meritato la giustificazione con la sua santissima passione sul legno della croce [can. 10] e ha soddisfatto per noi Dio Padre;
    • causa strumentale è il sacramento del battesimo, che è “il sacramento della fede”, senza la quale nessuno ha mai ottenuto la giustificazione.

Infine, unica causa formale è la giustizia di Dio, non certo quella per cui egli stesso è giusto, ma quella per cui ci rende giusti [cann. 10 e 11]; infatti, ricolmi del suo dono, veniamo rinnovati nello spirito della nostra mente [cfr Ef 4,23], e non solo veniamo considerati giusti, ma siamo chiamati tali e lo siamo realmente [cfr 1Gv 3,1], ricevendo in noi ciascuno la propria giustizia, nella misura in cui lo Spirito Santo la distribuisce ai singoli come vuole [cfr 1Cor 12,11], e secondo la disposizione e la cooperazione propria di ciascuno» (DH 1529). Dunque sola fide, sed numquam sola. E abbiamo visto la necessità della preparazione alla giustificazione.

  • IV, 8-15: caratteristiche della giustificazione cristiana. È per fidem e perciò gratuita. Non avviene attraverso la fede fiduciale, e perciò è incerta. Può accrescersi e può perdersi. Rende possibile la perseveranza, anche se la perseveranza resta un dono. Suppone la predestinazione, ma questa è inconoscibile. Può essere riacquistata, se questa viene perduta[41]. Le opere sono importanti e scaturiscono dalla fede: «Gli uomini, dunque, così giustificati e divenuti “amici e familiari di Dio” […] mediante l’osservanza dei comandamenti di Dio e della chiesa, crescono nella stessa giustizia ricevuta per la grazia di Cristo, poiché la fede coopera alle buone opere [cfr Gc 2,22], così divengono sempre più giusti [cann. 24 e 32] […]» (DH 1535). Dunque si è giustificati per fidem cum operibus.
  • V, 16: i frutti della giustificazione cristiana[42]. Le opere dei figli di Dio sono buone, fanno crescere nella giustificazione e hanno una proporzione con l’aumento stesso della grazia e della vita eterna[43]. «Perciò a quelli che perseverano “fino alla fine” [Mt 10,22; 24,13] e sperano in Dio deve essere proposta la vita eterna, sia come grazia promessa misericordiosamente ai figli di Dio per i meriti di Gesù Cristo, sia come ricompensa che, secondo la promessa di Dio stesso, deve essere fedelmente accordata alle loro opere buone e ai loro meriti [cann. 26 e 32]. […] Per questo si deve credere che non manchi più niente agli stessi giustificati, perché si possa ritenere che, con le opere compiute in Dio, essi abbiano pienamente soddisfatto alla legge divina, per quanto possibile in questa vita, meritando veramente di ottenere a suo tempo la vita eterna [can. 32] (purché muoiano in grazia [cfr Ap 14,13]). Dice, infatti, il Cristo, nostro salvatore: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà per lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”» (DH 1546). La grazia, unendoci a Cristo con amore attivo, assicura il carattere soprannaturale di ogni nostra azione e, di conseguenza, il suo merito davanti a Dio. Come i Santi, dobbiamo anche noi conservare sempre viva la coscienza che tutti i nostri meriti sono pura grazia (cfr CCC 2011). I meriti della vita di giustificazione e delle opere buone, quindi, vanno attribuiti anzitutto alla grazia di Dio, poi alla libera collaborazione dell’uomo che, tuttavia, è anch’essa opera della grazia divina[44]: «Non si deve nemmeno dimenticare che, anche se la sacra Scrittura attribuisce tanta importanza alle opere buone, al punto che a chi ha dato un bicchiere d’acqua fresca a uno dei suoi piccoli Cristo promette una ricompensa [cfr Mt 10,42; Mc 9,41], e se l’apostolo testimonia che “il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2Cor 4,17), mai un cristiano deve confidare o gloriarsi in se stesso e non nel Signore [cfr 1Cor 1,31; 2Cor 10,17], il quale è talmente buono verso tutti gli uomini, da volere che diventino loro meriti [can. 32] quelli che sono suoi doni» (DH 1548). Ciò che l’uomo non può assolutamente meritare è la giustificazione, la grazia prima o prima grazia santificante. La ragione è che, l’ordine della grazia è iniziativa assoluta di Dio, per cui nessuno può meritare la grazia che origina la prima conversione, il perdono e la giustificazione. In seguito, ossia una volta giustificati, sotto l’azione della grazia, ossia le mozioni dello Spirito Santo e della carità, possiamo meritare, per noi stessi e per gli altri, le grazie utili alla nostra santificazione, l’aumento della grazia, della fede, speranza e carità e la vita eterna. La vita eterna è il premio che Dio accorda al giustificato, per le opere buone compiute in stato di grazia. Pure i beni temporali possono essere meritati, secondo i disegni della sapienza e provvidenza divina. Tutti questi beni sono oggetto della preghiera cristiana, che provvede al nostro bisogno di grazia per le opere meritorie (cfr CCC 2010). Le condizioni per meritare, quindi sono: 1) lo stato di grazia; 2) la vita presente, prima della morte, o “stato di via”; 3) l’uso della propria libertà a favore di Dio e del suo progetto su di noi. Le opere devono essere buone e rese soprannaturali. Oltre all’esercizio della vita teologale, si cresce nella grazia e santificazione anche per mezzo dei sacramenti, segni efficaci e veicoli della grazia, di cui tratta la teologia dei sacramenti[45]. Le opere buone e la loro necessità vengono ammesse sia dai cattolici che dai protestanti. Certo, l’insistenza con cui i luterani parlano della “sola fide” può introdurre nella prassi dei loro fedeli un atteggiamento che trascura l’impegno nelle opere. Ma in teoria non esiste nella confessione luterana tale disprezzo. […]. Il vero punto della discordia fra cattolici e luterani, è il carattere meritorio delle buone opere. Per i luterani le buone opere sono corrette, necessarie, come frutto della giustificazione e come segno di essa. Per i cattolici invece queste opere sono anche azioni con le quali uno si guadagna la vita eterna come è obbligato di fare[46], fermo restando che tutti i nostri meriti sono pura grazia[47].

I canoni ribadiscono in forma negativa il contenuto dei capitoli in forma positiva. […].

Nonostante l’origine polemica antiprotestante di questo doc­umento, la dottrina esposta è di grande equilibrio. Salva insieme il primato dell’iniziativa divina e la collaborazione degli uomini, la gratuità della grazia e l’esistenza della libertà; la piena fiducia in Dio e il timore derivante dalla diffidenza verso noi stessi. Bisogna però ricordare che questa dottrina è limitata da un lato dalla teologia latina di cui si nutre e dall’altra dall’occasione storica che gli ha dato origine[48].

  • Conclusione: l’istanza “genuinamente religiosa” di Lutero

È uscito anche in Italia il testo rielaborato e ampliato di una conferenza del cardinale Kasper su Lutero tenuta il 18 gennaio 2016, all’inizio della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, alla Humboldt-Universität di Berlino su invito della Fondazione Guardini.

Dedicato alla sorella Ingeborg, scomparsa il 28 gennaio 2016, e uscito precedentemente in Germania (Patmos Verlag) e in Spagna (Sal Terrae), il piccolo libro è una sintesi intelligente ed ecumenicamente rilevante. Nel prologo l’autore, che dal 2001 al 2010 ha presieduto il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, riconosce che «per i cattolici Lutero è stato per molto tempo semplicemente l’eretico, colui che porta la colpa della divisione della chiesa occidentale, con tutte le sue brutte conseguenze, fino ad oggi». Ma «quei tempi sono passati» e la storiografia cattolica del Novecento «ha fatto compiere un’importante svolta nella comprensione» del riformatore, permettendo di riconoscerne «l’istanza genuinamente religiosa»[49] e «favorendo un giudizio più corretto riguardo alla colpa nella spaccatura fra le chiese e, nel segno dell’ecumenismo, la ricezione di alcuni suoi punti di vista e, non ultima, dei suoi canti liturgici. Gli ultimi papi hanno condiviso questo modo di vedere», come «Benedetto XVI, il 23 settembre 2011, nel corso della sua visita nella sala del Capitolo dell’ex convento degli agostiniani a Erfurt, dove Lutero pronunciò i voti religiosi». E se «per alcuni Lutero è già diventato quasi un padre comune della Chiesa», scrive ancora Kasper, «le numerose prese di posizione apparse per il 2017 nella ricorrenza dei “Cinquecento anni dalla Riforma protestante” non vanno così lontano. Tutte tengono conto del cambiamento avvenuto nella percezione ecumenica di Lutero, ma riconoscono anche che tra le chiese continuano a rimanere in sospeso questioni controverse. Così, molti cristiani si aspettano giustamente che la commemorazione, nel 2017, dei cinquecento anni dalla Riforma protestante ci faccia fare, sul piano ecumenico, un passo di avvicinamento all’obiettivo dell’unità»[50].

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[1] Una simile iniziativa non aveva comunque alcunché di insolito o di rivoluzionario, essendo consuetudine diffusa nel mondo accademico l’esporre “tesi” in pubblico e suscitare così discussioni e dibattiti su argomenti di particolare interesse.

[2] Alberto di Brandeburgo.

[3] A. Maffeis, «La Riforma», 7s.

[4] In Regno-doc. 58 (2013) 353-384.

[5] Dall’intervento del prof. Paolo Cozzo, professore associato in Storia del Cristianesimo e delle Chiese dell’Università di Torino, sul tema “La Riforma di Lutero: uno sguardo storico” alla Giornata del curricolo del I Ciclo, venerdì 9 dicembre 2016.

[6] Pronuncia “AISLĪBEN”.

[7] Mondin, 72.

[8] Dall’intervento del prof. Franco Buzzi, prefetto della Biblioteca Ambriosiana sul tema “La Riforma di Lutero: uno sguardo teologico” alla Giornata del curricolo del I Ciclo, venerdì 9 dicembre 2016. Per l’approfondimento si rinvia al suo volume Erasmo e Lutero.

[9] K. Bihlmeyer – H. Tuechle, Storia della Chiesa, III, 214.

[10] Cfr K.J. Becker, De gratia, 110.

[11] Da questo punto di vista la tesi luterana e quella cattolica (per cui Dio fa giusto l’uomo) non si escludono a vicenda.

[12] La tesi cattolica è invece che nel battezzato permane la concupiscenza la quale, però, non è peccato. Da questo punto di vista, la tesi luterana e quella cattolica non si escludono a vicenda.

[13] Dall’intervento del prof. Franco Buzzi, prefetto della Biblioteca Ambriosiana sul tema “La Riforma di Lutero: uno sguardo teologico” alla Giornata del curricolo del I Ciclo, venerdì 9 dicembre 2016.

[14] Per l’approfondimento si veda l’articolo di A. Maffeis, «Il sacerdozio universale dei fedeli secondo Lutero». È interessante ricordare che il Concilio Vaticano II prenderà proprio da Lutero l’aggettivo “comune” per definire il sacerdozio che possiedono tutti i battezzati. Ovviamente il Concilio non fa propria la negazione dell’externum sacerdotium che nella dottrina di Lutero funge da corollario all’idea del “sacerdozio comune”. Il Concilio invece continua ad affermare il sacerdozio dei ministri ordinati che definisce con l’aggettivo “ministeriale”: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo» (LG 10).

[15] A. Brancati, Popoli e civiltà, II, 142.

[16] Ivi rimase per dieci mesi, nel corso dei quali si dedicò alla sua più importante opera: la traduzione del Nuovo Testamento in lingua tedesca, reinterpretando la traduzione dal greco in latino che era stata compiuta da Erasmo da Rotterdam non molti anni prima (1516).

[17] Basti considerare la differenza che c’è fra i due nel modo di considerare la legge. Abbiamo già ricordato che per Lutero la legge mette l’uomo di fronte al suo peccato, gli svela la sua schiavitù; per Erasmo la presenza della legge in noi attesta l’esistenza della nostra libertà («devi, dunque puoi»). Il comandamento divino, per avere senso, presuppone l’uomo libero (cfr F. Buzzi, Erasmo e Lutero, 106).

[18] Diversamente da Zwingli, dal quale la libertà è sostanzialmente misconosciuta (cfr F. Buzzi, Erasmo e Lutero, 106-109).

[19] La coppia andò ad abitare nell’ex convento agostiniano di Wittenberg (l’ex convento nero), donato loro dal principe-elettore di Sassonia Johann, figlio del principale protettore di Lutero, Federico III di Sassonia. Come ricorda Federico A. Rossi di Marignano in Martin Lutero e Caterina von Bora. Il riformatore e la sua sposa, Àncora, Milano 2013, Lutero restò molto contento del suo matrimonio e di sua moglie: «Io non vorrei scambiare la mia Caterina né per il regno di Francia, né per Venezia, in primo luogo perché Dio ha donato lei a me e ha dato me a lei; 2) perché spesso ho sperimentato che ci sono più difetti nelle altre donne che nella mia Caterina; e se anche ne ha qualcuno, pure d’altra parte ci sono [in lei] molte più grandi virtù; 3) perché osserva la fedeltà coniugale, vale a dire la fede e l’onestà. Così viceversa deve pensare una moglie del marito». Katharina si occupò di amministrare i beni dell’ex convento, organizzando un allevamento di bestiame e una fabbrica di birra, e preoccupandosi di accogliere e ospitare i numerosi studenti che accorrevano da tutte le città tedesche per un’udienza con Lutero. Nei periodi in cui imperversò la peste, ella adattò l’azienda a ospedale, assistendo i malati assieme ad altre donne. Per la sua abilità ed efficienza, Lutero usava chiamarla affettuosamente “Herr Käthe” o “il capo di Zulsdorf”, il nome della loro proprietà (cfr F. Buzzi, Erasmo e Lutero, 9-16). Dal matrimonio con Lutero nacquero 6 figli: Johannes (Hans) (1526-?), Elizabeth (1527-1528), Magdalena (1529-1542), Martin (1531-?), Paul (1533-1593) e Margarethe (1534-1570). La coppia adottò inoltre quattro orfani, tra cui il nipote di Katharina, Fabian.

[20] Cfr F. Buzzi, Erasmo e Lutero, 171.

[21] Cioè il pensiero di Guglielmo di Ockham o Occam (1288-1349).

[22] J. Lortz, La riforma in Germania, I, 197s e 201.

[23] Già dal 1513 arcivescovo di Magdeburgo e amministratore di Halberstadt, nel 1514 ottenne anche l’elezione ad arcivescovo di Magonza nonostante il divieto di cumulo di cariche ecclesiastiche. Resasi vacante l’arcidiocesi di Magonza (1514), alla quale era anche collegata la prerogativa di principe elettore dell’Impero, Alberto avanzò la sua candidatura ed ottenne dai Fugger un prestito di 29.000 fiorini per la conferma della sua elezione e per ottenere dal pontefice la dispensa dal divieto di cumulare tre vescovati: per rimborsare la somma, Roma gli concesse di trattenere la metà del denaro ricavato dalla vendita di indulgenze bandita da Leone X nel 1514, a seguito delle spese per le guerre anti-francesi, per finanziare la ricostruzione della basilica di San Pietro. Con la bolla Sacrosancti Salvatoris et Redemptoris (31 marzo 1515) il Papa gli dava il privilegio di dispensare l’indulgenza nei suoi territori per un periodo di sei anni: metà del denaro ricevuto sarebbe stato versato al Papa e l’altra metà ai Fugger per restituzione del prestito. Proprio dal rappresentante dei Fugger a Roma era partita la proposta di una simile manipolazione. Nel 1516 l’arcivescovo affidò l’incarico di predicare l’indulgenza al domenicano Johann Tetzel (cfr K. Bihlmeyer – H. Tuechle, Storia della Chiesa, III, 218).

[24] A. Brancati, Popoli e civiltà, II, 140-142.

[25] Prolusione del valdese prof. Paolo Ricca all’inaugurazione dell’Anno Accademico 2016-2017 delle sezioni di Torino dell’Università Pontificia Salesiana e della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Torino 18 ottobre 2016. Dieci giorni prima, l’8 ottobre, lo stesso professore aveva tenuto a Roma la prolusione per la Facoltà valdese di Teologia, pubblicata con il titolo «Perché celebrare la Riforma?». Teniamo presente che il prof. Ricca nella prolusione usa la parola “chiesa” dal suo punto di vista, cioè senza tener conto — evidentemente — dei criteri dati dalla dichiarazione Dominus Iesus: «Le Chiese che, pur non essendo in perfetta comunione con la Chiesa Cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la valida Eucaristia, sono vere Chiese particolari. Perciò anche in queste Chiese è presente e operante la Chiesa di Cristo … Invece le comunità ecclesiali che non hanno conservato l’episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico, non sono Chiese in senso proprio» (DI 17). Infatti — precisa una recente risposta a quesiti — «i testi del Concilio e del Magistero successivo non attribuiscono il titolo di “Chiesa” alle Comunità cristiane nate dalla Riforma del 16° secolo perché, secondo la dottrina cattolica, queste Comunità non hanno la successione apostolica nel sacramento dell’Ordine, e perciò sono prive di un elemento costitutivo essenziale dell’essere Chiesa. Le suddette Comunità ecclesiali, che, specialmente a causa della mancanza del sacerdozio ministeriale, non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico, non possono, secondo la dottrina cattolica, essere chiamate “Chiese” in senso proprio» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, V quesito).

[26] M. Lutero, Resolutiones disputationum de indulgentiarum virtute, 1518, in Weimarer Ausgabe (WA), edizione tedesca completa delle Opere di Lutero, H. Bohlaus, 1883-2009, 1, 627, 27-31; trad. it. in M. Lutero, Le Resolutiones. Commento alle 95 Tesi (1518), a cura di P. Ricca, in «Opere scelte» 14, Claudiana, Torino 2013, 433.

[27] Al di là delle divergenze teologiche con Lutero (negavano ogni forma di organizzazione ecclesiastica esterna, negavano i sacramenti, tranne il battesimo, riservato ai soli adulti, e la cena), l’aspetto che più li distanziava dal riformatore era la loro irriducibile avversione contro ogni forma di potere politico — a cui invece Lutero si affidava — nell’esaltazione di un individualismo mistico.

[28] Come ribelli contro la religione e l’autorità, puniti persino con la morte sia dai principi cattolici sia da quelli protestanti. In Svizzera per esempio Zwingli li combatté duramente.

[29] Con l’intento di superare le divergenze esistenti circa la dottrina eucaristica, venne organizzato ai primi di ottobre del 1529 a Marburg un colloquio di religione, cui presero parte tra gli altri Lutero, Melantone e Zwingli. Ma tanto Lutero come Zwingli rimasero irremovibili ciascuno nella propria convinzione, e il tentativo di accordo non ebbe così esito alcuno. Per ciò che riguarda la dottrina della presenza rea­le, Lutero l’afferma anche se in maniera temporanea per cui Cristo è presente solo nel momento della ricezione (actio e usus); più che di transustanziazione egli preferisce inoltre parlare di impanazione o consustanziazione (“nel pane, con il pane, sotto il pane”). Zwingli interpreta le parole dell’istituzione eucaristica in senso simbolico-figurato, dando all’«est» il valore di «significat» (1524-25). Col tempo gli zwingliani abbracciarono la dottrina eucaristica di Calvino, che interpreta la presenza in maniera pura­mente simbolica, sostituendo l’idea di identità sostanziale con quella di analogia. L’est dei racconti dell’istituzione va inteso metaforicamente, ma non alla maniera del segno vuoto, per cui nell’eucaristia vi è un intervento dello Spi­rito che porta il comunicando ad un contatto con Cristo. Dunque riconosce nell’atto della comunione un “nutrimento spirituale”, una efficacia reale del Cristo glorioso che si trova in cielo (presenza virtuale). Solo i predestinati però ricevono il cibo celeste (alimentum), i reprobi, al contrario, soltanto pane e vino (elementum). Con la sua dottrina eucaristica Calvino possiamo dire che sta nel mezzo tra Lutero e Zwingli: cfr K. Bihlmeyer – H. Tuechle, Storia della Chiesa, III, 275-277.

[30] G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, libro II, cap. 16, paragrafo 19.

[31] I cattolici hanno riscoperto questa dimensione cristologica della Parola con il Concilio Vaticano II e la stagione postconciliare, tanto che nella teologia attuale si distingue fra:

  • norma suprema (norma non normata) della fede cristiana e della sua tradizione è soltanto la parola di Dio, che si è fatta carne in Gesù Cristo e rimane presente nello Spirito Santo, e non una sola delle sue forme di testimonianza. Il Cristianesimo — afferma san Bernardo — è la «religione della Parola di Dio»; non, però, di «una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente»;
  • Norma primaria (norma normata primaria) tra le manifestazioni della parola di Dio è la sacra Scrittura, in cui è fissata la testimonianza dei profeti e degli apostoli e dalla chiesa è considerata opera speciale dello Spirito Santo. Come testimonianza della traditio constitutiva essa stabilisce e ispira la tradizione successiva e quindi può essere indicata come «suprema fidei regula» (DV 21) rispetto alle istanze testimoniali subordinate;
  • Norma subordinata (norma normata secondaria) tra le testimonianze della parola di Dio è la vincolante tradizione di fede della chiesa, la traditio interpretativa et explicativa. In virtù della promessa della continua presenza di Cristo nella chiesa (Mt 28,20) e della ininterrotta assistenza dello Spirito Santo (Gv 14,16; 16,13) che promette alla chiesa l’indefettibilità (Mt 16,18: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa»), la chiesa confida che lo Spirito la conserverà come «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). Per questo il senso della fede di tutto il popolo di Dio (LG 12) e, a determinate condizioni, il magistero del collegio episcopale e del papa (LG 25) sono considerati infallibili. (H.J. Pottmeyer, «Tradizione», 1346s)

[32] I cattolici hanno insistito sull’origine della Bibbia, che è Dio, autore di essa per mezzo dell’ispirazione; i protestanti hanno insistito sull’obiettivo della Bibbia, che è Dio che salva gli uomini attraverso la fede. Il cattolico parlava di ispirazione, e pensava all’ispirazione che parte da Dio e fa di Dio l’autore della Bibbia [dimensione oggettiva]; il protestante parlava di ispirazione e pensava all’ispirazione che esce dalla Bibbia e va verso la vita [dimensione soggettiva]. Il cattolico deve ricuperare più chiaramente, nel suo concetto di ispirazione, l’influenza e l’obiettivo che l’azione ispiratrice di Dio vuol raggiungere nella vita degli uomini; il protestante deve ricuperare più chiaramente la dimensione oggettiva dell’ispirazione, che è fondamento dell’obiettivo che l’ispirazione si prefigge. […] La Bibbia, perché «ispirata da Dio» è già in se stessa Parola di Dio in linguaggio umano; ma questa Parola di Dio scritta attende incessantemente di diventare Parola di Dio vivente ed efficace per la salvezza degli uomini, qui ed ora, mediante un ascolto e un accoglimento di fede. Dice Brunner: «La Parola della Bibbia diventa Parola di Dio soltanto quando Dio stesso ci parla. Ciò che nei confronti di Dio ci riempie di autentica adorazione, di fiducia e di amore, non è questo principio assiomatico, ma l’autentico incontro col Dio che si rivela a noi tramite la Scrittura…, ci chiama e si intrattiene con noi» (V. Mannucci, Bibbia come Parola di Dio, 263-269).

[33] K. Bihlmeyer – H. Tuechle, Storia della Chiesa, III, 216s.

[34] Colzani, 233.

[35] O.H. Pesch, Liberi per grazia, 277s.

[36] I. Sanna, L’uomo via fondamentale della Chiesa, 264.

[37] I. Sanna, L’uomo via fondamentale della Chiesa, 264.

[38] Greshake, 74s.

[39] Greshake, 77.

[40] I. Sanna, L’uomo via fondamentale della Chiesa, 264.

[41] I. Sanna, L’uomo via fondamentale della Chiesa, 264.

[42] I. Sanna, L’uomo via fondamentale della Chiesa, 264.

[43] G. Gismondi, La grazia: temi e problemi, 60.

[44] G. Gismondi, La grazia: temi e problemi, 60.

[45] G. Gismondi, La grazia: temi e problemi, 60s.

[46] K.J. Becker, De gratia, 151.

[47] Scrive mons. Lambiasi: «E i meriti? Dimostrano anch’essi la grandezza dell’amore del Si­gnore. Trapiantando in noi un cuore nuovo — il cuore di suo Figlio — Dio Padre ci dà modo di collaborare attivamente alla sua opera redentrice e ci offre la concreta possibilità di “meritare” la salvezza. Come fa un papà, il quale dà al figliolo i soldi per acquistare il biglietto vincente alla lotteria, da lui stesso organizzata in famiglia» (F. Lambiasi, Sorpresi dalla Gioia, 237).

[48] I. Sanna, L’uomo via fondamentale della Chiesa, 264s.

[49] Per cui, non un Lutero mosso dal rimorso di coscienza per l’incapacità di contenere i propri istinti sessuali (H. Denifle) o affetto da una nevrosi traumatica ossia uno stato di angoscia davanti a un Dio conosciuto come terribile (H. Grisar). Bisogna certo tener presente, circa quest’istanza “genuinamente religiosa”, che molti dottori medievali non avevano affatto ignorato il senso della giustizia di Dio come misericordia gratuita, cosa che invece Lutero aveva presunto di scoprire quasi per la prima volta. Per l’approfondimento si rinvia a S. Xeres, O Roma o Cristo.

[50] W. Kasper, Martin Lutero, 9-11.

Don Antonio Nora, Teologo, Padre Cottolenghino