Correva l’anno 1985 quando un libro edito da Mondadori, Concerto rosso, a firma del braidese Pier Luigi Berbotto, balzava in testa alle classifiche di vendita, diventando un caso letterario. Diffidente com’ero- e come un po’ sono rimasta- verso gli ‘irrinunciabili’ best seller letti e amati da tutti, snobbai il libro, per poi pentirmene tempo dopo, quando ormai era diventato introvabile. Con l’urgenza del poi, tempestai e ripercorsi invano tutte le librerie torinesi e le bancarelle di corso Palestro e di Via Po, sperimentando così, come per un amore non vissuto, l’amaro gusto di una possibilità perduta esclusivamente per colpa mia.
A questo ancora pensavo in una serata d’inverno di due anni dopo, quando, seduta con una gamba ingessata davanti alla finestra, ammiravo il fascino di una bella nevicata, di quelle che una volta imbiancavano Torino, scorrendo distrattamente le pagine della Stampa. Il destino, a quanto pare, mi offriva una seconda occasione, come mi suggeriva la pagina dell’Agenda letteraria: Pier Luigi Berbotto avrebbe eseguito personalmente qualche movimento del suo ‘Concerto rosso’ al pianoforte in un circolo culturale. Accompagnata da un’amica, al termine dell’insolito concerto- presentazione avvicinai lo scrittore. Era vestito di bianco, ricordo; sorrisi con simpatia alla sua eccentricità, della quale allora mi facevo bella anch’io, fra guanti di pizzo, velette e cappelli piumati. Mi accostai e gli raccontai della mia esigenza di leggere il suo libro, ormai introvabile, chiedendogli di darmi informazioni per reperirlo. Fu quello il mio primo incontro con Pier Luigi Berbotto, che con garbo subalpino mi invitò a cena la sera dopo al ristorante Montecarlo ( al tavolo vicino, Carol Rama, habitué del locale, scherzava con il patron Sante) e mi donò una delle due copie ancora in suo possesso del Concerto rosso.
Ah, le case editrici: che avarizia, che avidità…commentammo, senza poter immaginare che da lì a qualche anno anche il mondo editoriale si sarebbe involgarito, e che tanti piccoli editori avrebbero tenuto verso i loro autori condotte ben più avvilenti di quella di un Signor Mondadori…
Il Concerto rosso, ambientato in una Torino così reale, popolata da personaggi politici e intellettuali allora in voga- eppure così metafisica e misteriosa, mi coinvolse profondamente. Era uno di quei libri in cui la trama ti invoglia a divorare le pagine, ma lo stile è tale da indurti a ritornare continuamente sull’armonia delle frasi, sulla profondità di una riflessione, su uno scorcio di Torino- la villa antica in collina, l’apertura scenografica di Palazzo Madama, l’ariosità di Piazza Statuto, …la malizia di una calza furtivamente sistemata da una giovane bellezza in piazza Maria Teresa- da costringerti continuamente alla rilettura. E tu sei li, felicemente sospeso fra il daimon della lettura e un’indolenza riflessiva, tra la fretta di divorare e il desiderio di gustare, finché il tempo si fa davvero soggettivo. Diventa ‘altro’. E anche quel tuo spicchio di vita.
Il Concerto rosso, misterioso spartito del Settecento, che dovrà essere eseguito a Superga dal famoso direttore d’orchestra Arthur Lehmann, in città per il Don Giovanni, semina una scia di sangue nella Torino da bere degli anni Ottanta, coinvolgendo il protagonista, il musicologo Alessio Dotta- alter ego dell’autore- , in un mistero che ha origine dall’oscuro, forse morboso legame fra il suo compositore, l’organista Gian Battista Rambaudi, e il diabolico Bartolomeo Audisio, autore di quadri contrassegnati da ermellini di un biancore fosforescente. Un mistery avvolto dalla musica che si fa Trascendenza; un libro ‘stregante’-come avrebbe detto lo stesso Berbotto- soprattutto per chi, come me, si riconosceva negli ambienti e negli umori di quella Torino ancora elegante, percorsa, fra convenzioni e riti sociali, fra austere geometrie architettoniche, da una vena di sotterranea follia.
Il successo del libro venne replicato dalle Ombre della cattedrale, edito ancora da Mondadori; e poi dai Violini dell’autunno, un titolo preso in prestito da Verlaine per il racconto, in forma romanzata, e sempre in chiave di enigma, del breve soggiorno di Mozart adolescente a Torino.
La nostra amicizia via via si rafforzò. Ci vedevamo per un caffè da Baratti, rievocando Le golose di Gozzano, o a casa sua per il rito del tè con la sua adorata Wilma; Pier Luigi presenziava quando poteva ai miei eventi letterari, e una sera in cui lo invitai a cena e lui si rivelò completamente afono- unica volta nella sua vita, come poi mi disse-, privandoci del gusto della sua conversazione, se ne scusò per settimane.
La nostra conversazione, da subito, toccò temi ad entrambi cari: la Torino di inizio Novecento, i suoi ambienti, i suoi personaggi letterari, e…Guido Gozzano, il pallido poeta delle rose non colte che tanto ci affascinava da sempre, e sulle cui orme avremmo ripercorso passi, allusioni, dialoghi in quella magica sintonia che raramente si riscontra in un’amicizia, in cui è sufficiente una parola per alludere a tutto un modo di suggestioni e di sentimenti. Fu così, la mia amicizia con Pier Luigi, se volessi rinchiuderla in un aggettivo: “gozzaniana”.
Così andai aux anges, come gli dissi sorridendo , quando pubblicò Scende la sera nel giardino antico, che lessi nella bella edizione L’Ambaradan: un omaggio al nostro caustico e malinconico Poeta del cuore, che, unitamente a Gabriele D’Annunzio, Eleonora Duse, Giacomo Grosso, Arturo Graf, veniva chiamato in scena dall’autore, insieme all’amata figura poetica di Carlotta, in un gioco delle parti fra finzione e realtà sullo sfondo della Torino liberty e di un suggestivo Canavese.
L’arte di Berbotto stava nell’imprimere caratteri di realtà in figure immaginarie, e di avvolgere quelle reali in un velo di enigma, di sogno, di mistero, con una straordinaria forza evocativa.
Pier provava per me affetto e alta stima. In occasione dell’uscita del mio libro Amalia, se Voi foste uomo…, in cui ripercorrevo la tormentata liaison fra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti esclamò entusiasta,nel suo salotto : “Mia cara, è incredibile la tua immedesimazione anche formale in Guido e Amalia! Ho controllato la metrica dei sonetti di Guido e sono perfetti: in questa poesia è ABBAAB, qui ABABCC!. E’ un miracolo: io non ci sarei mai riuscito”
Chi conosce l’ambiente editoriale, sa bene quanto siano rare, e quindi preziose, le lodi sincere, scevre da meschinita e invidia.
Presentavo i suoi libri con grande piacere, anche perchè non era necessario preparare nulla, con lui: non dovevamo far altro che ‘mettere in scena’ i nostri dialoghi di sempre. Il 10 febbraio 2006, effettivamente, ci trovammo a parlare quasi soltanto fra di noi del suo bellissimo Scende la sera nel giardino antico al Teatrino Civico di Chivasso. Avevo sì controllato, per organizzare la presentazione, che non vi fossero eventi conocomitanti nella cittadina, ma avevo completamente rimosso il fatto che quella fosse la sera inaugurale delle Olimpiadi invernali… Pier Luigi era un perfezionista, attentissimo ad ogni dettaglio, e solo grazie alla sua innata cortesia non ho mai saputo quanto gli fosse bruciata quella débacle.
Venimmo poi ripagati in tante altre occasioni, affollate di amici e di lettori. Certamente l’apoteosi, sotto questo aspetto, si verificò il 16 aprile di due anni fa; uno di quei rari frammenti di tempo che si ricordano per sempre, poi, come perfetti. Sua moglie Wilma mi aveva contattata per organizzare una festa a sorpresa al Circolo Lettori in occasione dei suoi 80 anni, dopo la mia presentazione di Scende la sera nel giardino antico. Al termine dell’affollatissimo incontro, adducendo un leggero mancamento- un malessere da inizio Novecento che non lo avrebbe certo lasciato indifferente- lo invitai ad accompagnarmi a prendere un caffè. Aperta ‘casualmente‘ la porta del salone vicino alla buvette, però, ecco scattare alla sua apparizione i flash e l’applauso dei tanti amici chiamati a raccolta dalla sua famiglia, in un’esplosione di allegria e commozione. Pier nascose il viso, sulle prime, con il gomito, sorpreso e un po’ imbarazzato e poi si unì alla simpatica brigata, conteso dall’uno e dall’altro, rivolgendomi ogni tanto occhiate di finto rimprovero.
Pier amava ricorrere, nei suoi scritti e nei suoi dialoghi, a parole e periodi ricercati, un po’ desueti: termini che rivelavano un gusto, un mondo interiore, e una chiave interpretativa della realtà, cosi come a un mondo di valori ormai obsoleti si appellavano i suoi preziosi consigli per muovermi nel mondo editoriale: l’onestà, la correttezza, la sacralità della parola data…. Non ricorreva a questa terminologia preziosa per snobismo o per compiacimento, ma per porgere al meglio i concetti, e anche per appagare il senso della musica, che lo accompagnava da sempre (suo padre dirigeva la Schola Cantorum di Bra), e che gli aveva permesso di portare a termine due belle biografie, Il gesto e il sortilegio su arte e mistica della direzione d’orchestra (Edizioni Fogola) dedicato a Evelino Pidò, e Luciano Pavarotti: canto e controcanto (Edizioni Quattroventi, Urbino).
Tutto in lui era compstezza e armonia, come nelle sue opere, che consideravo vere partiture musicali : la sua naturale indignazione verso la volgarità e la scorrettezza non era mai espressa con virulenza, ma percorreva la strada dell’ironia, del sottile sarcasmo; e nella felicità Pier Luigi manteneva quel pizzico di riservatezza che, nei sabaudi, si accompagna all’apertura di cuore.
Ho sempre pensato che, se fosse stato una musica, Berbotto sarebbe stato l’Andante maestoso del Concerto rosso
Un giorno Pier mi chiamò, chiedendomi un consiglio per il libro che stava ultimando: Uno sguardo oltre la siepe: una raccolta di saggi, aneddoti, racconti collegati fra loro da ciò che Giovanni Arpino definiva ‘il grumo segreto’ per arrivare al cuore del lettore. Berbotto aveva conosciuto bene Arpino, cosi come Calvino, ma non parlava di queste conoscenze se non quando ne era richiesto, e senza vantarsene, fermo nella sua posizione -due passi più in là- che gli permetteva di essere un attendibile testimone del suo tempo. Espressi tutto il mio sincero entusiasmo, e lui mi chiese se avrebbe potuto contare sul mio editing, perché non avrebbe potuto aspirare a nulla di meglio. Glielo assicurai, lusingata, e lessi con immenso piacere la bozza di quella sua opera, la più intimista, fra i piccoli capolavori di cui era stato autore. Dopo aver superato alcune vicissitudini editoriali che lo avevano ferito più umanamente che professionalmente, Pier era felice di averlo pubblicato con l’Araba fenice, che gli aveva manifestato il massimo rispetto e aveva scelto una bellissima immagine di copertina, opera dello stesso editore. Attendeva con gioia di poterlo presentare, dopo una ‘prima’ nella sua Bra, al Centro Pannunzio insieme a me, il 16 marzo. Ci sentimmo a fine febbraio, decidendo concordemente di far scivolare la data verso l’autunno, dato l’espandersi progressivo dell’epidemia virale. I lettori interessati, per quanto fosse stato a loro ancora consentito,avrebbero comunque paura a radunarsi “E io vorrei che la sala fosse affollata-aggiunse Pier- non tanto per me, quanto per le cose intelligenti che dirai tu sul mio libro”. Il suo ultimo atto di galanteria.
La data non si presenterà mai più, perché Pier se ne è andato il giorno prima del suo compleanno, in una notte ventosa d’aprile, come ha scritto la sua adorata figlia Silvia.
Chi ha letto queste righe, scritte con il sottofondo di Händel e di Mozart in onore di Pierluigi Berbotto, può bene immaginare quanto dolore abbia causato in me la scomparsa di un amico così prezioso, forse non casualmente avvenuta in questa atmosfera di nuova disumanità che sta decretando la definitiva scomparsa di un mondo. Pier è stato il portavoce di un’epoca che non tornerà, ma che il lettore potrà sempre ritrovare nei suoi bellissimi libri . Chi lo legge, può davvero affermare di averlo conosciuto: l’anima di Berbotto era nei suoi scritti, nelle sue parole. Piacevolmente arcaico. Ricercato. ‘Smussante’. ‘Umbratile’.
Addio, Pier Lugi. Ti accolga un Altrove avvolto da Musica e Armonia.
Marina Rota