Più si legge e si rilegge Leonardo Sciascia e più ci si accorge di come le sue opere letterarie siano una miniera in cui si scoprono sempre nuove cose, nuovi e interessanti argomenti di ogni genere e di vasto spessore, scritti con la sua ineguagliabile chiarezza e concisione, con cognizione di causa e che ci pongono profondi interrogativi e riflessioni anche per la loro straordinaria attualità.
Uno di questi interessanti argomenti (che ci riporta all’attuale drammatica emergenza coronavirus) lo troviamo in un suo scritto di sette pagine dal titolo “La medicalizzazione della vita”, che fa parte del libro “Cruciverba”, una raccolta di brevi saggi e annotazioni di Sciascia, che uscì in volume per le Edizioni Einaudi nel 1983.
Qui Sciascia parla della “Storia della morte in occidente” di Philippe Ariès, per rilevare il passaggio epocale da “Un’idea della morte”, “All’interdetto della morte”, che è la parte dominante di quella che Ariès chiama “Medicalisation de l’idèe del la vie”.
E Sciascia, su questo argomento parla della sua diretta esperienza nell’ambiente siciliano in cui è nato e vissuto. Ambiente in cui quando un proprio caro cominciava a star male, chiamare il medico significava chiamare il prete per far mettere in regola il malato con l’Aldilà, con Dio.
Chiamare il medico era un atto formale; non si aveva fiducia nella medicina. Non ci si preoccupava di conoscere la diagnosi (La morte era solo morte!); in questi casi, in Sicilia, si dice: “La calùnia ci fu e la morti vinni”; la Calùnia come scusa, motivazione: ce n’è sempre una per la morte. E la morte non veniva nascosta all’interessato; anzi, l’ammalato veniva informato del suo stato affinché si preparasse.
Ma, ad un certo punto, si fa strada il passaggio “dall’idea della morte all’interdetto della morte”. In Sicilia, ricorda Sciascia, questo passaggio avviene tra gli anni ’20 e ’40 del 1900.
A livello di borghesia questo passaggio avviene circa mezzo secolo prima, negli anni in cui si pubblica il racconto di Tolstoj “Morte di Ivan Il’ic (1886). Soggettivamente Ivan Il’ic “vive” l’antica morte; oggettivamente, la sua è una morte moderna, per noi e per coloro che lo circondano, come dimostrano i seguenti elementi:
-La sua morte ha un nome, cioè Cancro! Anche se i suoi familiari, modernamente, glielo nascosero. La sua morte avviene e progredisce con una non ancora preminente “Medicalizzazione della vita”.
-I familiari non credono a medici e medicina, più di quanto ci creda lo stesso Ivan, ma impongono, oltre a quelle assidue del medico, le visite di altri celebri medici; si impongono prescrizioni, medicine, e si vigila sul malato che le rispetti.
Insomma, si fa strada una nuova tremenda ipocrisia, oltre a quella voluta dal decoro, che comincia a circondare la malattia e la morte. I familiari non credono che medici e medicine possono fare qualcosa per Ivan, ma si comportano intorno a lui come se ci credessero. Come se per loro medici e medicine fossero strumenti punitivi: verso colui che impudicamente li fa spettatori della propria morte, della morte. Infatti la moglie di Ivan si lamenta ed esprime l’idea che sulla malattia del marito la colpa fosse appunto di Ivan “Come un nuovo dispetto che le faceva”.
Del resto, anche il luogo in cui vive la propria morte: “ … Da quando s’era ammalato dormiva solo, in una piccola camera vicino lo studio …” prelude alla “morte fuori casa”, “all’ospedale”. “ … Si sentiva con tre porte chiuse in mezzo …” si lamenta la moglie, “ …Il lamento di Ivan Il’ic era una cosa insopportabile, non so come io abbia fatto a resistere …”
Evidentemente non bastavano, ci volevano mura, ci voleva una dislocazione istituzionale (che allora non c’era), e comunque erano posti squallidi, indecorosi.
Ma, sul racconto di Tolstoj, Sciascia rileva tante cose interessanti in ordine all’atteggiamento dell’uomo occidentale di fronte alla morte e alla medicalizzazione della vita.
Il primo spunto deriva dalla confessione e comunione di Ivan morente, che non ha più la funzione di metterlo in regola con l’aldilà, ma è un diversivo, una pausa che conduce il pensiero dell’agonizzante, invece che alla morte e a Dio, alla vita e alla possibilità di guarire. Insomma, sul letto di Ivan, nel morire, conferma di trovarsi sul crinale di due epoche, il passaggio, la sostituzione: “Il medico in cui non è riuscito a credere, sostituisce il Prete in cui non crede più. E’ come se al suo capezzale il Prete avesse fatto consegna al Medico della vecchia idea della morte; e il medico non potrà che surrogarla totalmente con l’idea della “vita medicalizzata”.
Il secondo spunto è in quella specie di saluto al figlio, che è sollievo per quel s’appartiene alla sua morte secondo l’antica idea della morte; preoccupazione per quel che s’appartiene al figlio: che non vede la morte, che cominci a rispettare l’interdizione che sta per cadere sulla morte.
Terzo spunto sta nel paragone che Ivan Il’ic fa tra se stesso “Giudice” e il medico. Il medico imprescrutabile come il giudice; come il giudice non tenuto a rendere conto di nulla e soprattutto delle sentenze che emette. Come per il giudice, quel che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata, anche il medico fa astrazione della malattia e della salute, poiché quel che conta è l’affermazione della medicina, cioè della “Medicalisation de l’idèe de la vie”.
Col giudice medico di Tolstoj, siamo quasi al dottor Knock di Jules Romains: “Knock ou le triomphe de la medicine”, anno 1923.
Da quell’anno ad oggi, conclude Sciascia, il processo di medicalizzazione della vita si fa a tal punto travolgente che la letteratura non se ne occupa più, o almeno con opere apprezzabili, significative e durature.
A proposito di ospedale, Sciascia rileva ancora dalla sua diretta esperienza un passaggio fondamentale: Da una concezione dell’ospedale in cui il terrore di chi doveva finirci corrispondeva la vergogna dei familiari che erano costretti a portarvelo, Ad una concezione esattamente opposta: Dell’andare in ospedale e del portarvi uno della famiglia come segno di decoro e di mentalità civile e moderna.
Non si ammetteva prima, che si potesse nascere e morire fuori della propria casa; mentre oggi è considerato segno di arretratezza e di indigenza se un parto avviene in casa o se un ammalato, specialmente grave, non viene portato in ospedale.
Da quell’epoca, appunto, il processo di “Medicalizzazione della vita” si fa travolgente.
Insomma, tutto quello che prima avveniva in casa, gestito dalle famiglie, la nascita, la malattia, la vecchiaia, la morte, lentamente viene affidato, delegato, trasferito alla medicina, ai medici, agli ospedali, alle case di cura.
Le famiglie hanno sempre meno tempo e voglia di occuparsene, di prendersi cura; si richiede l’intervento pubblico; le famiglie, ma non solo; la stessa organizzazione della società tende sempre più a caricare tali incombenze sulle strutture sanitarie e socio sanitarie. Strutture che crescono a dismisura; ancor più gli ospedali e i pronto soccorso che diventano il ricettacolo di una umanità sparsa e dolente, ma anche più critica, più cosciente nei confronti della medicina e nella rivendicazione dei propri diritti.
Tutto questo è anche causa ed effetto dei grandiosi progressi della scienza e della medicina negli ultimi decenni.
A tal proposito possiamo constatare che negli ultimi 50 anni in Europa l’età media è aumentata di una ventina di anni e l’invecchiamento comincia dopo gli 80 anni.
E’ come se avessimo sconfitto la morte.
Quella che ti coglieva a tutte le età, che si propagava dagli uni agli altri, malattie letali (la peste, il vaiolo, il colera, la tubercolosi, la difterite, la malaria, la poliomielite,ecc.), sono state debellate o ordinariamente individuati e contenuti nella prassi medico ospedaliera.
Certo, si continua a morire. Soprattutto per quelle malattie conseguenza dell’invecchiamento. Ma anche su questo, si è fatto tanto come prevenzione, cura, sostituzioni, ecc. Tanto che l’aspettativa di vita delle popolazioni si è innalzata alla soglia degli 80 anni e la speranza di vita, nel periodo dal 1975 al 2000, è aumentata di 6 anni.
Aumenta sempre più la popolazione adulta che è molto più consapevole, cosciente, critica nei confronti dei medici e della medicina, e ne rivendica i propri diritti; si cura molto di più, si sottopone frequentemente ad esami, controlli clinici e diagnostici.
Altro effetto è che aumentano i problemi di disabilità che, da lieve a grave, affligge il 46% della fascia d’età 65/69 anni; il 51% nell’età 70/74 anni; il 59% nella fascia 75/79; fino all’80% nell’età sopra gli 85 anni.
I malati cronici raggiungono in Italia circa il 53% dei pazienti e che assorbono circa il 64% della spesa sanitaria.
E a questo punto, la nostra società ha di fronte il gravissimi problema in politica sanitaria della non autosufficienza e della disabilità: ovvero sono rischi privati. Ma pur nelle migliori condizioni di possibilità di intervenire con risorse private, rimarrà sempre una larga fascia di persone a medio basso reddito non in grado di garantirsi queste prestazioni.
Su questi elementi nasce l’orientamento delle “Autorità pubbliche” di definire “Dispendioso il sistema delle cure mediche sulle malattie avanzate o in fase terminale.
E da qui, la rimodulazione dei rimborsi della spesa sanitaria allo scopo di scoraggiare tali trattamenti definiti, allo scopo, “eroici“o “futili”.
Molti attuali problemi, compresa “l’eutanasia”, nascono da questo punto. Dal paradosso di una civiltà che evolutasi fino alla possibilità reale di protrarre l’esistenza di tutti, non ne garantisce l’applicabilità concreta a tutti per l’eccessivo costo economico.
E comunque, vivrà bene solo chi potrà permetterselo!
Sappiamo che ci sono sensibilità e posizioni diverse, ma la regola (che ha le sue eccezioni) potrebbe essere la seguente:
Garantire l’assistenza al malato nella sua integralità fino al termine della vita, somministrando le cure del caso (palliative, assistenza domiciliare integrata, hospice); nel nome di una medicina dedita a sostenere le persone e la loro dignità.
E si possono considerare edulcorazioni estremizzanti posizioni che parlano di “Autonomia del paziente”; di “Umanizzazione della morte”; e persino di “La morte come diritto civile”.
A tal proposito, alcuni casi clamorosi avvenuti in Italia e all’estero hanno fatto concentrare tutta l’attenzione sull’Eutanasia, rimuovendo o minimizzando la realtà di migliaia di persone affette da malattie gravi che mantengono inalterate le funzioni cognitive. Malati prigionieri del proprio corpo, dipendenti da macchine per poter vivere, vittime della mancanza di una assistenza domiciliare qualificata.
Gente che ha bisogno di essere assistita da personale preparato e di essere messa nelle condizioni di non gravare esclusivamente sulle famiglie.
Quelle famiglie su cui lo Stato, per incapacità, irresponsabilità, giustificate dai vistosi tagli alla spesa pubblica, scarica buona parte delle prestazioni, a cominciare dalla assistenza agli anziani, soprattutto i non autosufficienti, i malati di mente, in un crescendo che si estende ormai anche alle prestazioni ordinarie.
E, a partire da questi argomenti, la classe politica dovrebbe ripensare seriamente ad una adeguata assistenza sociosanitaria e a tutto il sistema del Welfare State.
E se ciò non è bastato, ci penserà seriamente, obbligatoriamente, il grande dramma dell’emergenza coronavirus che stiamo vivendo.