C’erano una volta gli “atei devoti”, ovvero dei non-credenti abitualmente schierati sulle posizioni della Chiesa, prototipo Giuliano Ferrara. Michele Serra li descrive, in una memorabile satira, come un “singolare fenomeno antropologico” per il quale “il marketing sta studiando, come per i gay, proposte commerciali apposite”, tipo “percorrere il pellegrinaggio di Santiago portati sulle spalle da un terziario francescano”, o anche “cappelle laterali riservate nelle chiese per seguire la messa fumando sigari cubani e leggendo Newsweek”, eccetera.
Premesso che considero Giuliano Ferrara come un grande, al quale posso solo tributare ammirazione, aggiungo che il tema degli “atei devoti”, satira a parte, merita una riflessione. E non è affatto uscito dall’attualità. Vediamo un po’. Un non credente può entrare nel “partito del Papa” partendo da una posizione utilitaristica e, direi, volterriana. La ratio: detesto sia la morale cristiana, sia l’azione storica della Chiesa, sia la “mitologia” cristiana. Però conviene che il popolo coltivi quella morale e quella mitologia perché non gli è concessa una morale “kantiana”, e quindi solo il timore del castigo ultraterreno può indurlo a comportamenti virtuosi. “Dio non esiste, ma non ditelo al mio cameriere, perché verrà di notte a uccidermi” (Voltaire). Mi azzardo a pensare che questa sia anche la ratio della tipologia “Giuliano Ferrara” (su altri lascerei gravare un sospetto di opportunismo).
Ma esiste un secondo tipo di ateo devoto: semplificando all’estremo, quello schierato non tanto con la Chiesa, quanto col Cristianesimo. Ascoltiamo un po’ il suo discorso: “la civiltà occidentale si regge su un pilastro, che è il pensiero illuminista, del quale storicamente è figlia e nel quale mi riconosco. E però, anticlericale ed ateo quale mi professo, non posso non ammettere che accanto a questo pilastro ne esiste un altro, ed è il Cristianesimo, ovvero l’humus nel quale, solum, quella civiltà poteva prendere corpo. E allora, nelle radici della civiltà occidentale ci metto i monasteri benedettini accanto al razionalismo greco. Anche se so che, tra il capire e il credere la Chiesa sceglierà sempre il credere, ciò che spiega certi rancori secolari, e certe indulgenze”.
Nella seconda tipologia, mi riconosco. Senza incertezze. Oggi guardo ai due pilastri e li vedo un po’ delabrés, come quelli del Ponte Morandi. L’illuminismo in Italia ha sempre avuto poco mercato, e infatti per trovare i grandi bisogna rivolgersi a Gran Bretagna, Francia, Germania. L’altro pilastro sta anche peggio, coi seminari vuoti, e alle messe un pubblico distratto e un prete che, tirato giù dal pulpito, una volta guardava verso Dio, e adesso guarda verso la gente, ma non è proprio la stessa cosa.
Ebbene, il ponte lo sento vacillare. Uscendo di metafora, l’Europa dorme, come diceva Husserl un secolo fa. Ieri Roberto Calasso: “dopo aver dettato legge ai due emisferi, gli occidentali sono sul punto di diventarne lo zimbello: spettri inconsistenti sopravissuti nel vero senso della parola, votati a una condizione di paria, di schiavi deboli e fiacchi, alla quale sfuggiranno forse i Russi, questi ultimi bianchi”.
In queste condizioni, non a caso sono morte due istituzioni delle quali mi onoravo di far parte e che vedevo come i templi dell’anticlericalismo torinese: il Centro Calamandrei e la Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni. Il fatto è che l’anticlericalismo tradizionale non si regge più. Il mio non lo ho buttato, ma lo ho messo in soffitta. E giro con una piccola croce al bavero della giacca. Che non è fede, è affermazione di una identità che sento minacciata; e non credo di essere il solo. Due miliardi di umani celebrano il ricordo di Yarmuk e dei Corni di Hattin. Mi sarà consentito di celebrare Lepanto e Vienna? Metterei anche un distintivo da illuminista, ma non ne conosco; inoltre, gli illuministi, a differenza dei Cristiani, non sono perseguitati in giro per il mondo: dicono cose che sono diaboliche per molti ma, da buoni intellettuali, le avvolgono in un gergo riservato ai cognoscenti (come dicono gli inglesi nel loro latino fasullo). Che “non possiamo non dirci cristiani” ce lo ha insegnato anche il laicissimo (e scomunicato) Benedetto Croce in un libriccino che il Pannunzio meritoriamente ripubblicò anni addietro.
Bernardin de Saint Pierre: la verità è sempre semplice, e non bisogna dirla che alle persone per bene. Lino Sacchi