Il cinema per come lo conosciamo, la grande sala buia dove vengono proiettati immagini e suoni che raccontano una vicenda della durata di due ore circa, vive un periodo di stagnazione. Se è vero che i risultati al botteghino del 2019 segnano un avanzamento del 14% rispetto all’anno precedente, guardando ad un periodo più lungo si nota come in dieci anni gli incassi oscillino, in Italia, tra i 550 ed i 650 milioni di euro, in Italia.

Fonte rapporto Anica 2019: http://www.anica.it/allegati/DATI/Box%20Office%202019_conferenza_1501_relazione.pdf

Di questi 635 milioni di euro, il 65% va a produzioni americane, quelle italiane si fermano al 21% per 134,8 milioni di euro, equivalente al fatturato qualche azienda metalmeccanica di medie dimensioni.

Questa realtà rischia di entrare in crisi a vari livelli e per varie ragioni. Sullo sfondo lo sviluppo di forme di intrattenimento alternative, ieri era la televisione, oggi i videogiochi ed i contenuti internet, dai social agli youtubers occupano sempre spazio nel tempo libero delle persone. La televisione stessa ha un’emorragia di spettatori costante che la marginalizza via via ad alcune fasce della popolazione. Se negli anni ’60 il cinema aveva cercato di riaffermarsi col cinemascope puntando su una spettacolarità non replicabile su uno schermo piccolo piccolo, oggi questa operazione è sfumata con il sostanziale fallimento del 3D. Una decina di anni fa sembrava che la nuova tecnologia sarebbe diventata uno standard, si vendevano televisori con gli occhialini appositi, Avatar Cameron 2009 aveva accesso molte speranze, poi il flop. Pochissime pellicole, in doppia distribuzione 2D e 3D, quindi praticamente il nulla 7,7M€ corrisponde a circa l’1% del mercato.

Lo streaming, legale o meno, agevolato da una sempre migliore connettività, rende di fatto superfluo recarsi alla sala cinematografica. Qualcuno ha obiettato che così si perde l’estetica, a fronte di una generazione che guarda tutto su un cellulare da sei pollici, Coppola si sarebbe rifiutato di girare Apocalypse Now 1979. Gli adolescenti probabilmente fanno così, ma oggi in commercio ci sono schermi ed impianti sonori di alto livello che rendono la fruizione non così diversa da quella della grande sala. Sicuramente a casa non rischiamo di incappare nella maleducazione di chi tiene il telefonino acceso o chiacchera o mastica un barile di pop corn, durante la proiezione. Per non parlare della comodità di poter scegliere l’orario e della soddisfazione di salvare il mondo non inquinando con l’autovettura. Il covid-19 ha accelerato una tendenza già in atto da tempo. La riduzione del numero delle sale è ormai storica e per crisi successive, prima fu la televisione, poi le norme di sicurezza dopo l’incendio dello Statuto, quindi l’avvento dei multisala, oggi in crisi anch’essi; peraltro, se si era pensato di collocare le sale in cintura, abbinandole ai centri commerciali, è perché evidentemente il pubblico non sentiva più l’esigenza di recarsi apposta al cinema. Non so quante sale saranno in grado di sopravvivere, ma se lo streaming ha fatto chiudere i negozi di dischi, non ha ucciso la musica e non ucciderà il cinema, così come l’e-commerce potrà far chiudere le librerie, ma non ucciderà la lettura, anzi renderà disponibile un archivio di vecchie edizioni difficilmente reperibili.

Il problema principale per il cinema, oggi, è un altro e non investe solo la distribuzione, ma direttamente il cuore dell’industria: la produzione. All’esplodere dello streaming si sono create delle piattaforme che in parte distribuiscono i film dell’industria cinematografica, in parte finanziano produzioni proprie. Il caso più evidente è Netflix, ma altri giganti stanno entrando in scena in questi mesi. Netflix produce e distribuisce sulla propria piattaforma in primis serie televisive. Questo è chiaramente un attacco al cinema del primo tipo, quello della forma di intrattenimento alternativa di cui abbiamo parlato all’inizio. Le serie sono tante, alcune importanti, si pensi al successo planetario di Games of Thrones 2011, House of cards 2013 o La casa di carta 2017, non più ignorabili, al punto che anche un’associazione di cinefili, come l’Aiace, vi ha dedicato uno dei suoi corsi. Le serie, per l’utente finale sono impegnative da guardare, durano decine di ore e sono sempre più pensate per non concludere la vicenda, lasciando aperti nodi per una stagione successiva, poi un’altra, poi un’altra, … quasi una droga. Quanti film si potrebbero guardare al posto di una serie che dure cinque o sei stagioni? Forte degli introiti derivati dalle serie, Netflix ha, recentemente, deciso di fare un salto di qualità e produrre direttamente film, anche cooptando nomi eccellenti per avere titoli di grande rilievo. Si pone quindi in concorrenza diretta con le case produttrici tradizionali.

In una logica liberista, l’aumento della concorrenza spinge alla competizione, con un miglioramento complessivo dell’offerta ed una riduzione dei costi a vantaggio del consumatore finale. In questo caso è così? Forse, ma c’è un potenziale pericolo da non sottovalutare. Netflix ha un modello diverso dagli altri perché non distribuisce nel circuito tradizionale, bensì sulla propria piattaforma, con integrazione verticale della filiera, oltretutto, avendo gli introiti delle serie è in grado di entrare sul nuovo mercato facendo dumping. Detto in altri termini, è nella condizione in cui erano le major hollywoodiane nel periodo classico del cinema. Data l’enormità degli investimenti, oltre 15 miliardi di dollari solo nel 2019 in ulteriore crescita, ha la potenza di fuoco per spazzare via le fragili cinematografie nazionali europee, instaurando potenzialmente un monopolio. Ne risentirebbero sia la libertà di scelta dei consumatori, sia la libertà espressiva degli autori. Questo è il pericolo. I primi ad accorgersene sono stati i francesi, vuoi per generica grandeur nazionale, vuoi perché difendono l’indipendenza conquistata storicamente dalla Nouvelle Vague. Per questo hanno posto un argine rifiutando al festival di Cannes Roma 2018 di Cuaron, tra mille polemiche. Il film fu poi presentato a Venezia, evidentemente in Italia c’è più elasticità. Quando leggiamo sui giornali che Scorsese ha portato la produzione di The Irishman 2019 dalla Paramount a Netflix o ha firmato con Apple per Killers of the Flower Moon, non stiamo leggendo articoli di costume e società, ma bollettini della guerra in corso che segnano l’avanzata o meno di un esercito.

Nel frattempo, altri giocatori stanno entrando sul mercato, sia come piattaforme di sola distribuzione (Chili, Rakuten), sia replicando il modello Netflix con produzione e distribuzione integrata, Amazon Prime, Apple e l’attesissima Disney che può mettere in campo lo sterminato catalogo della Fox di recente acquisizione. Questa pluralità stempera il rischio di cui sopra, ma non lo annulla perché potrebbe crearsi un oligopolio, di incontrastato dominio americano. Anche perché all’affacciarsi di molti players su un mercato nuovo, spesso segue una brutale selezione che ne riduce il numero. Come reagiranno le cinematografie nazionali? Tenendo presente che già oggi una buona parte delle produzioni italiane, francesi ed inglesi sono finanziate dallo Stato, la risposta sarà, non di mercato, ma governativa. È probabile che si tenti di porre vincoli all’accesso sulla falsariga dello sconto massimo all’acquisto dei libri on-line, tentando di legare la distribuzione sulle piattaforme alla preventiva uscita nelle sale. Sarebbe auspicabile che i soldi pubblici venissero investiti per sviluppare o rilanciare un’industria, creando magari una piattaforma italiana o, in collaborazione, europea, non per prolungare artificialmente la vita di un malato terminale. Purtroppo in questo senso non sono ottimista, a titolo di paragone ricordo che Alitalia è sempre più piccola e vola sempre di meno, tranne che per i costi scaricati sul contribuente: 12,5 miliardi di euro, quelli sì, hanno già preso il volo! (fonte: https://www.ilsole24ore.com/art/per-salvare-alitalia-stato-ha-spes-o-126-miliardi-45-anni-ADyuy1S)