L’idea militarista si perde nella notte dei tempi, è parte dell’umanità sin dagli albori. Che gli eroi siano coloro che affrontano sfide e pericoli, combattono, tornano vincitori ricoprendosi di gloria è propria di molte mitologie. È grazie alle sue eroiche imprese che Ercole sale all’Olimpo e diventa un dio, così come solo ai caduti in battaglia si spalancano le porte del Walhalla, sì che possano banchettare alla tavola di Odino. È un’idea che attraversa tutte le epoche, dagli scontri cavallereschi medievali, all’utilizzo dell’epica come esaltazione del potere militare in età moderna, penso allo stesso Ercole effigiato sulla corazza del cavallo di Carlo V, all’Armeria Reale di Madrid. Attraverso il Risorgimento, con una folla acclamante Carlo Alberto che, nel marzo 1848, cavalca verso il Ticino, per arrivare a Marinetti che, darwinianamente, definisce la guerra «sola igiene del mondo», nella convinzione ottimistica che siano gli eroi sopravvivere e non piuttosto qualche imboscato, passando per le imprese di D’Annunzio, il tutto poi scopiazzato dalla roboante retorica fascista. Non sono le dittature del ‘900 ad aver inventato il militarismo, al massimo lo hanno applicato e, nel caso italiano a parole più che con le armi, con i tragici effetti che sappiamo. Nel cinema sono molte le pellicole che hanno ripreso la tematica militarista, creando personaggi entrati nell’immaginario collettivo da un primo Clint Eastwood Gunny 1986 che poi farà profonde riflessioni in materia, all’indimenticato John Wayne. La guerra come giusta causa, necessità sacrosanta, si esplicita al massimo nelle pellicole sulla Seconda Guerra Mondiale. La sua rappresentazione è luminosa, chiara, razionale, comprensibile. I campi lunghi consentono di abbracciare lo scacchiere dello scontro, di capire e vedere le avanzate degli uomini, come le battaglie del passato erano osservate con il binocolo dalla collina, quindi immortalate sulle grandi tele ad adornare i saloni reali. L’esempio migliore di questo cinema è Il giorno più lungo registi vari 1962, film sullo sbarco in Normandia che narra, senza risparmio di mezzi, l’intervento alleato in Europa durante il secondo conflitto mondiale. Con la Prima Guerra Mondiale si fa invece strada l’idea opposta, quella antimilitarista, che osserva il fenomeno del reducismo, inteso come le migliaia di invalidi, mutilati, traumatizzati e trae la conclusione che sia la guerra a distruggere un’umanità intrinsecamente buona e pacifica. Anche in questo caso l’idea è più antica, risale infatti quanto meno a Rousseau, nel mito del buon selvaggio, se non addirittura ad un’idea di Arcadia. L’uomo è buono, ma la guerra lo rovina, lo corrompe, il reduce non torna a casa coperto di medaglie ma intriso di traumi, di ferite interiori che non si rimarginano. È l’esperienza degli Ungaretti e dei Remarque che, sin dal primo dopoguerra trova spazio nel cinema in pellicole come All’ovest niente di nuovo Milestone 1930 o Westfront Pabst 1930. Cui seguono tante altre pellicole fortemente antibelliciste ed antiretoriche sul tema originario degli Stati Uniti: il western; da Soldato blu Nelson 1970 a Balla coi lupi Costner 1990. Tuttavia è sulla guerra in Vietnam, fortemente avversata politicamente, che si concentra questa visione. Con la sola eccezione di Berretti verdi Wayne 1968, tutta la produzione cinematografica sul tema affronta la tematica di come la guerra rovini l’essere umano, sprofondandolo verso abissi insondabili Apocalypse now Coppola 1979, o costringendolo a violenze psicologiche immani Il cacciatore Cimino 1978. La tecnica cinematografica è opposta alla precedente: si evitano i campi lunghi e gli sguardi di insieme, prevalgono i piani ravvicinati, il movimento è disorientante, la scenografia labirintica, il montaggio serrato, l’azione frammentata. Tutto contribuisce a creare nello spettatore quel senso di smarrimento, incomprensione ed avulsione dalla realtà che, in questa visione, i soldati vivevano. I temi classici sono la distanza e l’incomprensione tre il soldato che ritorna in licenza ed i civili che non hanno vissuto quella esperienza, l’incapacità di riambientarsi nella vita quotidiana a guerra finita, al punto da scegliere di ritornare al fronte perché il cameratismo, inteso come condivisione di esperienze vissute, è l’ultimo sentimento rimasto e combattere l’ultima cosa possibile, The hurt locker Bigelow 2008. Emblematica più di altre è la vicenda di Rambo Kotcheff 1982, film antimilitarista per eccellenza, a differenza dei suoi sequel. Il protagonista, reduce delle truppe speciali nella guerra del Vietnam che l’immaginario collettivo americano cerca di rimuovere, vagabondando, arriva in una pulita cittadina in cerca di lavoro. Il capo della polizia subito lo intercetta e, gentilmente lo accompagna al confine opposto, indirizzandolo altrove, come persona non gradita o un rifiuto. Al suo rientro è arrestato e torturato dalla polizia locale. Questo gli causa dei flashback delle torture che aveva subito in Vietnam e preso da una rabbia incontenibile riesce a scappare. Forte delle tecniche di guerriglia apprese in guerra, intraprende quindi una vendetta personale arrivando ad attaccare la stazione di polizia in un’apoteosi di violenza. Alla fine, in lacrime, si arrende solo al colonnello che era stato il suo comandante. Il tema principale non è la capacità militare del protagonista, poi retoricizzata ed esaltata dai film successivi, bensì la mancata integrazione di un reduce che nell’esercito ha doti eccezionali, ma che la società rifiuta, arriva a dire: «in Vietnam guidavo mezzi per milioni, e qui non riesco a trovare lavoro come parcheggiatore». Non ci sono dubbi, Rambo è una vittima della guerra, senza di essa non si sarebbe ridotto così. In questa dicotomia, per decenni, Kubrick è stato considerato un paladino dell’antimilitarismo, con riferimento ai suoi due film di guerra Orizzonti di gloria Path of glory (più letteralmente il cammino della gloria) 1957 e Full metal jacket 1987. Una rilettura più approfondita, oggi, ci dice che non è così: non che sia militarista, ma ha un’idea propria, diversa, che non è nemmeno la sintesi delle altre. In Orizzonti di gloria, durante la Prima Guerra Mondiale, un cinico generale Mireau cerca di promuovere la propria carriera, sacrificando deliberatamente migliaia di uomini in un attacco rischioso che si rivelerà un’ecatombe. Poi addossa loro la colpa ed ottiene l’esecuzione di tre di loro per codardia. Uno sarà scelto perché non testimoni la vigliaccheria di un ufficiale, uno con menzioni di eroe, beffato dal destino. Unico personaggio ancora positivo è il colonnello Dax che, dopo aver tentato invano di salvarli ed aver ordinato all’ufficiale vigliacco di comandare il plotone d’esecuzione, denuncerà il generale Mireau per aver chiesto all’artiglieria di sparare sui suoi uomini. Lo Stato Maggiore promuoverà Dax, non per la sua sincerità, ma nella convinzione che il suo agire fosse determinato da brama di potere. Non c’è spazio per l’idealismo, l’umanità è una cloaca in cui una singola mosca bianca non viene creduta. In Full Metal Jacket, una squadra di marines è addestrata dal sergente di ferro Hartman, finché il soldato Palladilardo perdendo il lume della ragione, commette un omicidio-suicidio; successivamente inviata in Vietnam dove, anche Jocker, il più pacifista, diverrà un uccisore, perdendo la propria purezza, ma senza esserne particolarmente sconvolto, anzi con la scoperta consapevolezza di essere parte della malvagità umana. «Sono proprio contento di essere vivo. Tutto d’un pezzo, prossimo al congedo. Certo vivo in un mondo di merda, questo sì. Ma sono vivo e non ho più paura». Peraltro in nessuno dei due film v’è traccia del topos del reduce o del confronto tra la vita ed il rapporto con gli altri prima e dopo l’esperienza drammatica della guerra.
Allargando lo sguardo all’intera filmografia del regista, non si riscontra affatto il tema cardine dell’antimilitarismo, ossia la bontà originaria dell’uomo, per Kubrick l’uomo è intriso di malvagità sin dall’origine. La violenza è intrinseca nella natura umana sin dal momento in cui la scimmia utilizza l’osso come arma contro un’altra scimmia, nella celebre scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio 1968. La violenza pervade tutto e tutti, dal combattimento con i manichini nel Bacio dell’assassino 1955, alla sparatoria tra complici in Rapina a mano armata 1956, alla follia del Generale Ripper ne Il dottor Stranamore 1964, agli impulsi omicidi di Jack in Shining 1980. L’esempio più esplicito rimane Arancia meccanica 1971 in cui alla violenza gratuita di Alex e dei suoi amici nella prima parte del film, fa da riscontro altrettanta violenza da parte delle sue ex-vittime, nel momento in cui non si può più difendere, dopo la cura Ludovico. Nessuno di questi personaggi è intrinsecamente buono, nessuno risponde in modo non violento, non c’è spazio per Gandhi in film di Kubrick. Ancor più non c’è alcuna speranza per il futuro, il computer HAL 9000, sempre in 2001 Odissea nello spazio, decide deliberatamente di uccidere l’astronauta chiudendolo fuori dalla stazione spaziale, senza alcuna ragione. Dopo la scimmia e l’uomo, anche la possibile evoluzione, l’intelligenza artificiale, è intrinsecamente violenta, proprio come l’uomo che l’ha creata.