Il 9 maggio 1950, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman annunciava la proposta del governo francese di un’integrazione della produzione di carbone e acciaio di Francia e Germania sotto una comune alta autorità. Un’Europa unita, diceva il ministro, da tempo obiettivo della Francia, sarebbe stata il miglior antidoto alle guerre che avevano dilaniato l’Europa stessa.

La Germania Ovest, guidata dal cancelliere Konrad Adenauer, aderì prontamente alla proposta. Il 18 aprile 1951 venne siglato il trattato costitutivo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), prima comunità europea e unica di natura sovranazionale, guidata da un’autorità autonoma dai governi degli Stati membri. A essa si unirono anche l’Italia e i paesi del Benelux (unione doganale di Belgio, Olanda e Lussemburgo).

Al di là dei sinceri sentimenti europeisti di Schuman e Adenauer, entrambi cristiano-democratici, l’iniziativa aveva motivazioni tipiche della realpolitik dei due Stati nel quadro della guerra fredda ormai “dichiarata” tra il blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti e quello orientale guidato dall’Unione Sovietica.

I paesi dell’Europa orientale, già occupati dall’Armata Rossa alla fine della guerra, erano ormai in mano ai comunisti, già dal 1945-46, quando la politica americana, nella fase di transizione tra le presidenze Roosevelt e Truman, era ancora in corso di definizione. Di fronte a un blocco sovietico in evidente formazione, specie dopo le elezioni dello scorcio del ’46 vinte da fronti patriottici formalmente pluralisti ma egemonizzati dai comunisti in Bulgaria, Romania, Ungheria e Polonia nel gennaio ‘47, gli Usa perseguirono con determinazione il rafforzamento del blocco occidentale in funzione antisovietica. Già nel discorso di Stoccarda del 6 settembre 1946 il segretario di stato americano Byrnes aveva legato ricostruzione europea e ricostruzione tedesca. Poco dopo l’enunciazione della dottrina Truman nel marzo 1947 venne approvata dal Congresso la risoluzione del senatore Fullbright favorevole alla creazione degli Stati Uniti d’Europa. Il piano Marshall annunciato nel giugno includeva anche la Germania, già il 1° gennaio le due zone d’occupazione inglese e americana erano state unificate (la Francia mantenne separata la propria sino al 1949). Nel giugno 1948 venne istituita un’assemblea costituente tedesca e introdotto il nuovo marco. L’8 maggio 1949 venne adottata la Legge fondamentale della RFT (Repubblica Federale Tedesca), costituita dalle tre ex zone di occupazione occidentali.

La politica americana non lasciava dubbi: essa legava il rafforzamento del lato debole del blocco occidentale, cioè quello europeo, alla ricostituzione della potenza tedesca, al pieno recupero della sua forza industriale ed economica, che ormai prefigurava anche il suo riarmo, inserito nel quadro democratico occidentale e nelle sue strutture politico-militari inclusa l’Alleanza Atlantica.

La Francia, già riluttante alla riunificazione delle tre zone della Germania nella RFT, aveva impostato la sua politica estera del dopoguerra sulla subordinazione e debolezza politica della Germania e invano aveva resistito alla sua piena riabilitazione. L’ansia francese fu misurata nel marzo del 1947 dal trattato di Dunkerque con la Gran Bretagna laburista di mutua assistenza contro la rinascita militare tedesca. La Francia non poteva impedire, ma neanche accettare tout court, la ricostituzione della potenza tedesca su un rapporto privilegiato bilaterale con gli Usa, del tutto svincolato da un suo controllo.

La Francia temeva il ritorno della Germania alle antiche posizioni di influenza in Europa. L’integrazione di due settori allora strategici dell’economia, dell’industria e della difesa, come carbone e acciaio, creava una struttura comune che avrebbe consentito ai francesi di controllare la Germania, sia pure con reciprocità. In breve, l’integrazione europea in strutture comunitarie era lo strumento con cui la Francia soddisfaceva l’interesse nazionale di controllare l’antico nemico. Inoltre, l’europeismo francese mirava a un blocco continentale europeo a guida franco-tedesca che bilanciasse nell’alleanza occidentale la special relationship anglo-americana.

La Germania di Bonn aderì di buon grado all’integrazione europea perché essa consentiva di far accettare senza diffidenze la propria unità statale, limitata al momento all’Ovest, e ricostituire la propria potenza in un quadro di fiducia da parte degli ex nemici. Inoltre, guidata da un partito e un leader rigidamente anticomunisti, vedeva nell’inserimento nelle strutture del blocco occidentale una garanzia verso un nemico che aveva “in casa”, cioè la RDT comunista satellite dell’Urss. In breve, l’integrazione europea consentiva il reinserimento a pieno titolo della Germania Ovest nelle relazioni internazionali, ma rimandava inevitabilmente la riunificazione con le regioni della Germania Est. Il riscatto del pegno dell’unità nazionale perduta con la guerra, nell’irrinunciabile quadro democratico occidentale, era legato alla vicende della guerra fredda e avverrà solo con il crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo nell’Est Europa dopo il 1989.

Le esigenze della guerra fredda e il condizionamento della politica della potenza egemone impegnata nella costruzione di un blocco occidentale integrato e forte, imposero alla Francia una revisione, certamente innovativa, della propria politica di potenza: l’unico modo di controllare il recupero del ruolo di potenza europea dell’antica rivale era quello di unirsi a essa nei settori strategici per la potenza economica, industriale e militare. La risposta francese alla sfida posta dalla politica americana verso la Germania era l’inevitabile accettazione della piena riabilitazione di quest’ultima ma in un quadro comunitario di controllo. L’europeismo francese, di cui il piano Schuman fu un’alta espressione, risentiva di queste preoccupazioni.

L’integrazione europea si avviava su spinte di insicurezze e paure, di esigenze nazionali e sfide internazionali, un intreccio di fattori che poco avevano a che fare con il sogno degli Stati Uniti d’Europa. Essa si alimentava di due timori, la minaccia sovietica e la resurrezione tedesca, la prima condivisa da entrambi i paesi, la seconda temuta dalla Francia e ricercata con discrezione dalla Germania. Le iniziative europeiste dei due paesi seguivano una logica di “potenza” nazionale, facilitate, ma non determinate, dal sincero europeismo di buona parte dei loro ceti dirigenti. Entrambi i paesi fecero di necessità virtù.

Infatti, i limiti dell’europeismo francese si vedranno pochi anni dopo, quando, il 30 agosto 1954, il parlamento francese bocciò il trattato costituivo della CED (Comunità Europea di Difesa), a suo tempo proposta dal governo francese di René Pleven. I tempi erano cambiati, le tensioni della guerra fredda e il pericolo comunista sembravano attenuarsi: nel marzo 1953 era morto Stalin, nel giugno era stato siglato l’armistizio in Corea, nell’aprile 1954 si apriva la conferenza di Ginevra che porterà ad accordi sull’Indocina. L’integrazione europea poteva rallentare e accantonare i settori dove imponeva sacrifici eccessivi di sovranità nazionale, come la comunità militare e quella conseguente politica, benché il suo rilancio portasse a risultati rilevanti, come il MEC, che salvavano un’integrazione sia pure di tipo intergovernativo e non sovranazionale. Le celebrazioni dei momenti dell’integrazione europea, di cui la dichiarazione Schuman fu senza dubbio un passaggio qualificante, daranno spazio a legittima retorica idealista. Tuttavia, l’avvio di quel processo nel secondo dopoguerra non fu dato da una condivisa cultura federalista, bensì da precise preoccupazioni “nazionaliste”. Se e quanto queste radici storiche condizionino ancora oggi l’unione degli stati europei è lasciato al dibattito politico, non è ancora ufficio della storiografia.