Domenica scorsa ho visto anche io “Hammamet” e dopo averci pensato un bel po’ ho deciso solo ora di scriverne. Dunque, secondo me il punto non è se il film è bello o no. Il punto è se dopo anni di insulti, calunnie, ingiustizie il ventennale della morte di Craxi poteva essere l’occasione pubblica per innescare un ripensamento collettivo sul suo ruolo, sul suo operato, sulla sua riflessione politica e su quello che i socialisti hanno fatto per la storia della Repubblica e per la causa della libertà in giro per il mondo.
Se quel film doveva essere quello, se doveva essere la scintilla per una più ampia riflessione, allora ha fallito, e temo che nessun altro evento in programma per quest’anno possa rimediare a questo errore.
In una guerra civile, come quella che si è scatenata in Italia dopo la caduta del Muro, ci sono sicuramente vinti e vincitori, ma nessuno è senza macchia, per questo riaprire il dibattito ripartendo dal post-tangentopoli serve solo a rinfocolare vecchi odi, i soliti pregiudizi e consolidate falsità.
Per raccontare Craxi (non sono ne un regista ne uno sceneggiatore e non saprei esserlo), lo si sarebbe dovuto collocare nella grande storia del socialismo italiano, dalle leghe contadine, ai primi scioperi sindacali del Novecento, dal “Repubblica o morte” di Nenni, al ruolo fondamentale che i socialisti hanno avuto (secondo partito dopo la DC) in Assemblea costituente, dallo Statuto dei lavoratori di Gino Giugni (che il PCI non votò), alla svolta del ’76 che fu, non mi stancherò mai di ripeterlo, prima di tutto una svolta di filosofia politica: fare pace con la civiltà liberale, con il mercato e quindi dare vita, per la prima volta, a una sinistra in linea con il dettato costituzionale che agli articoli 41 e 42 riconosce e protegge la libera impresa e la proprietà privata.
Nessuno nella storia del socialismo italiano, e in parte europeo, aveva in precedenza fatto una cosa del genere, dicendo per la prima volta che il fine ultimo non è la collettivizzazione totale, ne la soppressione della libera impresa, del capitalismo e della proprietà privata. Il socialismo liberale non indica mete, per questo non piace, è un metodo che invita a bilanciare libertà liberali e diritti sociali, perché le società aperte non possono esistere senza libertà, ma queste libertà non possono durare senza uguaglianza delle opportunità. E qual è la risposta del socialismo liberale a chi chiede come bilanciare quelle libertà, in che misura, in che proporzione, in che modo? Dipende. Dipende dai momenti storici, ci sono fasi in cui è necessario porre l’accento sui diritti sociali e altre in cui è necessario porre l’accento con più forza sulle libertà liberali. Dipende! e questo tipo di riposta non piace a chi è in cerca di un credo, di una fede e non di un metodo per cercare semplicemente di migliorare la convivenza collettiva.
Sarebbe bello poter raccontare l’Italia di Craxi, di uno cioè che riusciva a vedere oltre i discorsi dei catastrofisti di professione e dei moralizzatori “un tanto al chilo”, un paese che dal basso, in silenzio, senza stracciarsi le vesti nelle piazze mediatiche, cambiava (e cambia) pelle, da solo, produce, lavora, accetta le sfida digitale e cresce, mentre la mano pubblica, che dovrebbe aiutare e accompagnare queste evoluzioni, è troppo impegnata a battersi la fronte in attesa del collasso (immaginario) prossimo venturo.
Il suo era “L’ottimismo della ragione” contrapposto al melodrammatico e insensato “pessimismo della ragione e ottimismo della volontà” di Gramsci: battersi per qualcosa in cui non si crede razionalmente è da cretini, non da eroi.
Quella di Craxi e dell’Italia liberal-socialista, laica e non piagnona, fu una corsa trionfante che culminò con un socialista al Quirinale e uno a palazzo Chigi, per la prima volta nella storia, con successi economici importanti e un nuovo orgoglio collettivo. È stata una storia di successi, non di sconfitte.
Poi che cosa è successo? Francamente non lo so. Ho sempre avuto il pallino di tentare di capire che cosa sia stata Tangentopoli e non l’ho ancora capito. Ma una cosa mi è chiara ed è questa.
Non so se sia stata una abilissima operazione di manipolazione collettiva o di collettivo esercizio pubblico di stupidità umana, (forse le due cose insieme) ma ad un certo punto si è creduto (ci vorrebbe Cafagna per spiegarlo bene) che il debito pubblico e i problemi finanziari esplosi nei primi anni novanta fossero dovuti alle tangenti; si è creduto cioè, o voluto credere, che l’enorme debito pubblico fosse dovuto al fatto che i politici della prima repubblica avessero rubato i soldi dalle casse dello Stato.
Un modo furbo per non riconoscere che i responsabili del debito pubblico siamo tutti noi, tutti nessuno escluso: sono le tonnellate di medicine che ogni italiano teneva in casa, per poi buttarle (ricordo interi armadi pieni di medicine), sono gli agriturismi fasulli, i giorni di malattia senza essere malati. Il debito pubblico è tutto ciò che abbiamo preteso di avere, pur non avendo i soldi per pagarlo.
Pertanto, il vero dramma di Craxi non è l’essere stato il capro espiatorio di una classe politica che si finanziava in modo illecito (per la cronaca i reati di finanziamento illecito dei partiti ante 1989 sono stati amnistiati nel 1989 stesso), ma l’essere stato (e continuare ad esserlo) il capro espiatorio di tutti i peccati pubblici degli italiani. Peccati di cui non si pentiranno e non riconosceranno mai nemmeno davanti al prete.