Il 1920 fu l’anno cruciale per il rafforzamento del Fascismo. Da una parte ci fu il fenomeno dei Ras nelle regioni contadine, dall’altra sulla scia della Rivoluzione d’ottobre nasce l’operaismo rivoluzionario che fa capo soprattutto ai torinesi dell’Ordine nuovo, i due fenomeni saranno alla base della crescita fascista.

Il personaggio di Camillo Olivetti, al di la di essere stato il fondatore dell’omonima fabbrica, secondo me riveste una particolare importanza sul piano dell’analisi politica. Nel 1920  è decisamente un lib-lab è ancora un rivoluzionario ma con strumenti tutti politici.

Questa lettera che scrive a Bonomi in quell’anno Presidente del Consiglio. Ivanhoe Bonomi, con Bissolati, furono tra i cacciati dal PSU nel 1912 e possiamo definirli i primi socialdemocratici italiani, anche se la vulgata da il merito a Turati e soci che invece furono ambigui sul tema.

Ivrea 1 giugno 1920

Onorevole Bonomi, Una gentile lettera del suo segretario particolare mi avverte che per una di quelle che quando sono fatte dagli altri si chiamano colpevoli dimenticanze e quando sono fatte da noi innocenti distrazioni, non ho messo nella busta un piccolo trafiletto che avevo fatto tempo fa e pubblicato su un giornaletto, relativamente a Bissolati e che fino a un certo punto si adattava anche alla sua situazione dell’ultima crisi. Riparo ora alla dimenticanza. […] Parafrasando un detto relativo al regime russo, io direi che siamo in un regime di assolutismo burocratico temperato dall’indisciplina, abbiamo una parvenza di Statuto formale, senza più alcun contenuto reale. Il minor male, secondo noi, sarebbe di fare una rivoluzione e se Ella avesse sorpassato su degli scrupoli pseudo costituzionali e si fosse imposto a quel mendico che sta al Quirinale, cercando di creare un ministero fuori dal parlamento (il che alla lettera sarebbe ancora costituzionale) ciò sarebbe stato un bene, naturalmente se avesse saputo scegliersi le persone adatte. A tal proposito ho scritto nel N. 4 di quest’anno un articolo intitolato “Competenti” che era realmente poco nella direttiva di quel giornale, ma che per quanto preceduto da un cappello che tentava di menomare i concetti, è stato pubblicato appunto perché spiegava le ragioni perché il nostro (e non solo il nostro) Parlamento non poteva trovare persone capaci di fronteggiare le terribili condizioni presenti. Io per quanto riformista in teoria, incomincio (o meglio, ritorno) ad essere rivoluzionario in pratica, e ciò perché vedo che vi sono troppi diritti acquisiti in alto e in basso che impediscono un reale progresso della nazione, diritti acquisiti di cui soltanto una rivoluzione si può sbarazzare. Mi sono convinto che un errore assai grave dei socialisti riformisti e non riformisti, è di non aver dato abbastanza importanza alla forma di governo. Simili a quei viticultori che non si sono curati dello stato dei vasi vinari e si sono visti rovinato il prodotto dell’uva a cui avevano rivolto tutte le loro cure, i socialisti italiani non hanno incominciato, come sarebbe stato necessario, coll’installare una forma politica che permettesse realmente il progresso e le riforme economiche che stavano in cima ai loro pensieri e si vedono ora che alcune di tali riforme potrebbero essere mature, rese impossibili perché imputridite causa la forma del nostro governo centratore che spera una selezione a rovescio degli individui. Perciò sono diventato, a cinquant’anni un partigiano di repubblica federalista che io credo che sia l’unica forma adatta al nostro paese e che ne permetterebbe il sano svolgersi, e fosse necessario per ottenere tale cambiamento di battersi, sarei dispostissimo a farlo. Forse si potrebbe ottenere lo stesso scopo anche senza battersi, ma sarebbe necessario che le persone come Lei, che sono in condizione di assumere responsabilità e potere lo facessero sorpassando sulla forma. Senza un cambiamento radicale, noi non possiamo andare avanti e le persone che lavorano e producono alle cui spalle vivono tutte le altre che non fanno nulla e che impediscono agli altri di fare, finiranno di rendere possibile quell’assurdo che tra noi è il bolscevismo perché pensano che giacché si deve andare in malora fa proprio lo stesso di esserci mandati dai Bombacci e Barberis che dai Nitti. Scusi questa chiacchierata e mi permetta almeno di congratularmi con Lei per lo scampato pericolo di avere per collaboratori i popolari. Dv.mo Olivetti

Questo lo stato d’animo politico di Camillo nel 1920: non dice cose molto diverse da ciò che ha sempre manifestato, in bilico com’è sistematicamente stato tra riformismo e rivoluzione. Camillo ha stima di Bonomi, vecchio socialista ora su posizioni social-liberali, che avrebbe potuto approfittare di quell’ultima spiaggia per cambiare le cose. Queste lettere ci fanno comprendere come Camillo, ormai sfiduciato, comprese che i socialisti non avrebbero mai fatto la rivoluzione democratica e liberale e quindi, ora che all’orizzonte appariva un’altra rivoluzione, quella fascista, pur con tutti i distinguo non scartò neppure quell’ipotesi. La rivoluzione russa non influenzò solo i socialisti; per motivi diametralmente opposti influenzò anche Mussolini, al punto da provocare un ulteriore cambio di rotta. Camillo capì la vera natura del bolscevismo ben prima di Mussolini. Il futuro Duce soffriva ancora di tutte le contraddizioni tipiche della sinistra socialista: aveva sì ammorbidito certi toni, ma rimaneva un socialista non certamente convertito al riformismo. Tuttavia, non era solo un politico, ma anche un giornalista, e come tale non poteva esimersi dal guardare i fatti. La situazione della Russia bolscevica denunciava chiaramente che quel paese stava peggio di prima. La rivoluzione, eliminando tutte le forze sociali ed economiche, era rimasta priva degli elementi basilari non solo per governare, ma anche per produrre e commerciare. Lenin, novello Robespierre, aveva fatto piazza pulita non solo degli zar e dei nobili, ma di tutti quelli con un minimo di potere che non fossero bolscevichi. Quei comunisti sapevano fare la rivoluzione, ma avevano grossi problemi, ora, a gestire la “cosa pubblica”. Lenin fece una mezza marcia indietro: avendo bisogno dei burocrati ritenne che fosse più semplice ripescare quelli vecchi, piuttosto che attendere anni prima che se ne formassero di nuovi. Scese a compromessi e fu salvato dalla guerra civile scatenata dai militari fedeli allo zar e dalle potenze europee che, preoccupate, finsero di vendicare il regicidio mentre, in realtà, cercarono di far saltare quell’esperimento comunista che avrebbe potuto contagiare anche i loro paesi. Come spesso accade, di fronte all’aggressione degli stranieri il popolo si serrò ancora una volta attorno a quei capi.

Mussolini ne trasse probabilmente le conseguenze, convincendosi che una rivoluzione ha la possibilità di riuscire, e soprattutto di durare, solo se non fa tabula rasa dietro di sé. Aveva dimostrato nel ’19 le prime aperture politiche, ora avrebbe fatto anche quelle sociali ed economiche. Ecco come i fascisti diventarono il riferimento per tutti quei ceti che si sentivano minacciati. Quale fu l’atteggiamento di Camillo di fronte all’evolversi del fascismo? Al di là delle prevenzioni che poteva ancora avere sull’uomo, avrebbe osservato con attenzione quel nuovo movimento che voleva fare una rivoluzione repubblicana e finalmente interclassista. Non gli era nemmeno passato per la testa di aderirvi nel ’19, essendo troppo eterogenea la compagine, per uno come lui che aveva sempre criticato i pasticci in politica e le alleanze spurie. In quel movimento, c’era un po’ di tutto: socialisti, anarco-sindacalisti, quei matti di futuristi, nazionalisti e persino monarchici. Camillo, a differenza degli altri industriali, non dovette sopportare l’occupazione del suo stabilimento, benché sindacalisti torinesi si recassero nella fabbrica di mattoni rossi, insistendo perché gli operai occupassero anche l’Olivetti. Parlò ai dipendenti, dicendo con chiarezza di non essere d’accordo sull’occupazione, ma che nulla avrebbe fatto nel caso gli operai avessero deciso diversamente. Ancora una volta quella maestranza si strinse attorno a lui. Arrivarono anche i fascisti, per offrire aiuto a Camillo. A loro poté dire: “no grazie”. A Torino, intanto, Gioda aveva fondato il primo fascio a cui aveva aderito con il solito entusiasmo Pietro Giraudo (mio padre). Erano quattro gatti, ex socialisti, ed ora avevano avuto un’iniezione piccolo borghese. La vulgata che il fascismo sia nato come reazione degli ambienti industriali latifondisti e finanziari è quantomeno opinabile. Il fascismo nacque probabilmente perché molti non si riconoscevano in alcun schieramento politico dell’epoca. Avevano l’interventismo come matrice politica comune, con la conseguenza diretta dell’odio verso quei socialisti che nell’immediato dopo guerra, invece di arrivare alla pacificazione degli animi, continuavano a soffiare sul fuoco, e ora che avevano avuto un grande successo elettorale le cose erano peggiorate. Inizialmente Mussolini considerò il movimento fascista come una delle tante opzioni che poteva mettere in campo. Le cose cambiarono man mano che egli spostò i suoi interventi su posizioni più moderate, pensando che potesse valere la pena impegnarsi di più in quel movimento, in attesa che i suoi nemici commettessero passi falsi. Gli eventi non tardarono ad arrivare. Nel ’19 c’erano state le avvisaglie che le sinistre avrebbero giocato la partita nelle fabbriche: la gran parte dei dirigenti socialisti parlavano continuamente di rivoluzione e bolscevismo, ma all’atto pratico facevano ben poco. A Torino, invece, il gruppo di «L’Ordine Nuovo», fortemente influenzato dal leninismo, partorì la via operaia alla rivoluzione. Per la verità fu Gramsci a generarla: era troppo intelligente per credere che bastassero i proclami per arrivare a quest’ultima, occorreva creare un legame diverso con la classe operaia, dandole degli obiettivi politici che superassero il mero rivendicazionismo sindacale e organizzativo, e formando una classe dirigente di fabbrica che avrebbe, a tempo debito, potuto costituire l’avanguardia destinata ad affiancarsi ai capi per portare la rivoluzione verso il suo luminoso traguardo. Se quei professorini avessero esaminato meglio ciò che succedeva in Russia, avrebbero capito che, tra le enunciazioni di principio e il governo del potere, c’è lo stesso mare che c’è tra il dire e il fare, e che ogni giorno porta problemi economici difficilmente risolvibili, oltre agli umori, spesso irrazionali e contrastanti, delle masse. Se erano stati i soviet di fabbrica l’arma principale della rivoluzione russa, dalle fabbriche sarebbe partito il movimento per “l’ordine nuovo”. Il clima si prestava, gli operai erano esasperati dalla crisi del dopoguerra e un po’ in tutte le aziende si erano create delle avanguardie decise. Partendo proprio da queste, nacque l’idea dei “Consigli di Fabbrica”. Da poco tempo erano state riconosciute dagli industriali, obtorto collo, le commissioni interne; ora si giocava al rilancio con questi Consigli che avevano come scopo dichiarato “il controllo della produzione, l’armamento e la preparazione militare delle masse e la loro preparazione politica e tecnica”. Gli ordinovisti erano convinti che alla rivoluzione si sarebbe arrivati con le truppe organizzate, non con le parole. A Torino queste idee trovarono ampio spazio, se non nella maggioranza dei lavoratori, nella maggioranza degli attivisti, così decisa che prese il sopravvento rispetto ai vecchi sindacalisti della Camera del Lavoro. In quasi tutte le fabbriche furono formati i Consigli e avvenne una specie di congresso in cui si definì un programma. Interessante riportarne uno stralcio, sempre dall’articolo di Gramsci: 

L’organizzazione dei Consigli si basa sui seguenti principi: in ogni fabbrica e in ogni officina viene costituito un organismo sulla base della rappresentanza (e non sull’antica base del sistema burocratico) il quale realizza la forza del proletariato, la lotta contro l’ordine capitalistico ed esercita il controllo della produzione, educando tutta la massa operaia per la lotta rivoluzionaria e la costituzione dello Stato Operaio.

Alcuni compiti dei Consigli di Fabbrica hanno carattere prettamente tecnico e perfino industriale, come ad esempio, il controllo sul personale tecnico, il controllo sui dipendenti dimostratisi nemici della classe operaia, la lotta con la Direzione per la conquista dei diritti e la libertà. Il controllo della produzione dell’azienda e delle operazioni finanziarie. Insomma, era nato il comunismo in Italia, non sul piano partitico, ma su quello ideologico. Era logico attendersi una vivace reazione. Gli industriali, infatti, che tutto erano meno che uniti tra di loro, si unirono immediatamente fondando la Confindustria. Mussolini, che già aveva stigmatizzato la capacità di governo dell’economia dei bolscevichi, ebbe buon gioco per diventare improvvisamente simpatico a una quantità di categorie alle quali, francamente, non lo era mai stato. Quanto a Camillo, lui aveva sempre sostenuto che i profitti delle aziende dovessero andare nella direzione di chi vi lavorava, rispettando però le basilari regole economiche: giusta remunerazione del capitale, investimenti, sviluppo, gerarchia e disciplina. Inoltre aveva sempre denunciato, come demagogiche e sbagliate, le tendenze a considerare le aziende delle assemblee permanenti dove tutti erano soci con diritto di parola e decisione. Ora però si teorizzava, in Italia, quello che lui aveva denunciato del bolscevismo. La dittatura di una sola classe e l’eliminazione di tutte le altre. Lasciamo parlare sempre Gramsci: 

L’organizzazione tecnica dei Consigli e delle Commissioni Interne, la loro capacità di azione si perfezionò talmente, che fu possibile di ottenere in cinque minuti la sospensione del lavoro di 15 mila operai dispersi in 42 reparti della FIAT. Nel Dicembre 1919 i Consigli di fabbrica diedero una prova tangibile della loro capacità di dirigere movimenti di masse in grande stile; dietro ordine della sezione socialista, che concentrava nelle sue mani tutto il meccanismo del movimento di massa, i Consigli di Fabbrica, mobilizzarono senza alcuna preparazione, nel corso di un’ora, centoventimila operai, inquadrati  secondo le aziende. Un’ora dopo si precipitò l’armata proletaria come una valanga fino al centro della città e spazzò dalle strade e dalle piazze tutto il canagliume nazionalista e militarista.

Naturalmente anche tra i massimalisti molti pensavano che la costruzione palese di un esercito rivoluzionario, che minacciava apertamente gli interessi e le proprietà degli industriali, era quanto meno un azzardo. Ma, nonostante queste preoccupazioni, poco fu fatto per arginare quella furia rivoluzionaria che, questa volta, proprio perché era stata pianificata scientificamente dagli ordinovisti, non avrebbe consentito facili ritirate. Nell’aprile del ’20, su una proposta governativa di introduzione dell’ora legale (c’era una delle tante crisi energetiche), le aziende spostarono indietro di un’ora le lancette degli orologi delle fabbriche. In una delle ormai tante sezioni FIAT la Commissione interna, acclarato che ai lavoratori la cosa non garbava per nulla, spostarono le lancette sulla vecchia ora. A raccontarla ora, la cosa sembra risibile, invece fu l’inizio di un incredibile bailamme, a Torino e altrove. Camillo era contro l’ora legale e quindi gli orologi della Olivetti rimasero inchiodati sul sole, e non certamente “il sol dell’avvenir”. In quella fabbrica non si mosse foglia né ci furono scioperi, tranne forse, anche se non abbiamo trovato riscontri precisi, qualche partecipazione, in segno di solidarietà, durante gli scioperi generali. A Torino invece la cosa durò oltre venti giorni, all’inizio con una partecipazione praticamente plebiscitaria degli operai, poi la maggioranza silenziosa tra i lavoratori iniziò a mugugnare. Gli industriali, in testa Agnelli, assoldarono manodopera disoccupata e, quando all’ingresso di costoro ci furono tafferugli, le forze dell’ordine intervennero. Chi non ha lavorato in fabbrica ha un’idea vaga di cosa si tratti. Gli elementi combattivi e sindacalizzati sono sempre una minoranza e di questa minoranza una parte consistente non lo fa per fede, ma per togliersi dalla schiavitù del lavoro manuale: la cosa potrà non piacere a coloro che della classe operaia hanno fatto un mito, ma è la realtà. Qualsiasi lotta sindacale passa attraverso due fasi: quella dell’entusiasmo, dove tutti partecipano e si sentono eroi, per poi giungere ben presto a quella della stanchezza causata, soprattutto, dalla necessità: gli scioperi significano perdita salariale e, in special modo in quel periodo, a quello del capo famiglia spesso non s’aggiungeva alcun altro reddito. Le mogli, finito lo sforzo bellico, erano tornate ai fornelli e i figli, con la nuova legge di Giolitti, non potevano più essere impiegati nelle fabbriche, quindi quell’unico introito era fondamentale. Gli strumenti della solidarietà operaia erano palliativi che prolungavano le vertenze di qualche giorno, ma non risolvevano i problemi economici delle famiglie degli scioperanti. Quando i sindacalisti ufficiali capirono che non si stava andando da nessuna parte, se non verso la sconfitta, si misero a fare il lavoro tipico del sindacato, la ricerca di un compromesso onorevole, e in qualche modo la vertenza si chiuse, lasciando naturalmente i lavoratori con la bocca amara e gli attivisti inferociti. Da parte del partito ufficiale e del sindacato si diede degli “avventuristi” a Gramsci e ai suoi compagni, i quali fecero un’autocritica sulla tattica, ma si guardarono bene dall’esaminare la strategia di fondo. La conflittualità diventò permanente all’interno della fabbrica, incidendo fortemente sulla produzione e minando gli ordini gerarchici. Ce n’era a sufficienza perché gli industriali dalla difesa passassero all’attacco. Nel settembre del 1920, furono loro a dare il via alle ostilità proclamando, di fronte a quella continua non collaborazione, la serrata degli stabilimenti, che ebbe come diretta conseguenza l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai. Era nel frattempo tornato al governo l’immarcescibile uomo di Dronero. Nessuno, meglio di lui, seppe gestire una fase tanto delicata e pericolosa. Quello che successe in FIAT ne è un esempio sintomatico. Il mattino in cui gli operai occuparono le varie sezioni, soprattutto in corso Dante, trovarono delle armi, tra cui un cannoncino; poterono così asserragliarsi armati. Agnelli, preoccupatissimo, in compagnia del proprietario e direttore di «La Stampa» di Torino, Alfredo Frassati, che era un supporter giolittiano, presero il treno per recarsi a Bardonecchia dove Giolitti d’estate soleva spostare il suo governo. Chiese a Giolitti di intervenire. L’ormai vecchio, ma ancora lucido statista rispose calmo: «Va bene, commendatore: manderò l’artiglieria a cannoneggiare la sua fabbrica.» Agnelli capì l’antifona, Giolitti avrebbe sbrogliato la matassa alla sua maniera, il governo sarebbe stato relativamente neutrale, attendendo che l’inevitabile stanchezza operaia si facesse sentire. Gli scioperi sono sempre, per i lavoratori, logoranti, ma lo sono solo sul piano finanziario; finiti i picchetti per garantire la riuscita, si torna a casa dalle mogli e dai figli e tutt’al più ci si deve sorbire i borbottii delle consorti, molto meno rivoluzionarie. L’occupazione è un’altra cosa. Si deve vivere in fabbrica per giorni e giorni, con l’impressione per di più di essere assediati. Già, assediati, perché questa volta qualcuno organizzò la reazione: i nazionalisti che Gramsci definiva “canagliume”, i borghesi che temevano la rivoluzione, i piccoli borghesi con la puzza sotto al naso nei confronti degli operai, e ora anche i fascisti. Mussolini aveva stigmatizzato la serrata e inizialmente fu cauto nel giudicare l’occupazione, poi capì che quello poteva essere il momento giusto per nuove alleanze e iniziò a sparare su quella lotta che non aveva scopi sindacali, ma politici e antinazionali. Questo diede modo ai fascisti non di sinistra di unirsi alla reazione. A Torino, De Vecchi decise che era venuto il momento di isolare quei pericolosi anarchici che facevano capo a Mario Gioda e approfittò della situazione per liberare gli “arditi” torinesi che da troppo tempo scalpitavano facendo capo a Brandimarte, un ex ufficiale, una vera pellaccia. Quando la stanchezza iniziò a farsi sentire, soprattutto tra gli operai che non avevano occupato gli stabilimenti e ogni mattina si recavano davanti ai cancelli per vedere ciò che succedeva, iniziarono i tafferugli. Gioda, preoccupato da un lato che il fascismo potesse apparire reazionario, dall’altro di non lasciare l’iniziativa a De Vecchi, cercò di intervenire, venendo a trovarsi tra l’incudine e il martello. Ne fece le spese Pietro Giraudo che, proponendosi di tenere tranquilli gli arditi del capitano Brandimarte, si recò ai cancelli di corso Dante, ma la cosa fu interpretata dagli occupanti come un tradimento. Quel giorno Giraudo litigò aspramente con Brandimarte, ma non successe nulla: poi la sera, quando rientrava alla sua abitazione di via Genova, fu aggredito da un gruppo di scioperanti armati di chiavi inglesi. Stette alcuni giorni in coma all’ospedale San Giovanni Vecchio di Torino. Quando si svegliò, vide accanto al suo letto due persone: Mario Gioda, che l’aveva vegliato e Camillo Olivetti che, saputo del fatto, era sceso da Ivrea per informarsi sulla sua salute.

Giolitti aveva visto giusto: le cose dovevano dipanarsi senza traumi, lasciando che il tempo facesse il suo corso, e così avvenne. Gli ordinovisti avevano sperato che l’occupazione delle fabbriche fosse la scintilla della rivoluzione: quando si accorsero che né il partito né il sindacato erano di quell’avviso, ma soprattutto che il movimento non si era esteso a tutto il paese, videro sbriciolarsi le proprie certezze. In una riunione svoltasi a Milano furono processati e tacciati di avventurismo e abbandonati anche da coloro che erano sulle loro posizioni. Un delegato di Napoli disse a Gramsci: «Eravamo in ammirazione di quello che succede da voi, ma francamente sembrate indecisi, privi di una strategia.» Ancora una volta toccò al sindacato togliere le castagne dal fuoco a quei precursori di “Lotta Continua”. Ad ogni modo quell’occupazione fu uno shock per tutti. Lo stesso Agnelli, che aveva subito l’occupazione più dura e politicizzata, fu colto dalla sindrome di Stoccolma, tanto che negli ultimi giorni dell’occupazione propose di trasformare la FIAT in una cooperativa, e non solo, ma quando venne siglato il compromesso finale, aderì alla richiesta del sindacato di licenziare duecento dipendenti crumiri. Ne fece le spese Pietro Giraudo che fu licenziato senza liquidazione, mentre aveva ancora le bende in testa e partì per Ivrea per raggiungere l’amico Camillo che lo aveva assunto. Tempi pieni di contraddizioni quelli: licenziato da un padrone liberale, lui, fascista della prima ora, fu assunto da un padrone socialista.

Tito Giraudo da:

“La fabbrica di mattoni Rossi” Conti Editore e Kindle