Nel 1929, dopo il crollo di Wall Street, le classi dirigenti occidentali si dimostrarono incapaci di affrontare e risolvere la crisi globale.
Negli Stati Uniti il presidente Hoover era un fautore dell’ortodossia liberista, assolutamente contrario ad ogni intervento dello stato nell’economia. Ogni possibile miglioramento, sosteneva, dipende solo dall’iniziativa privata. La sua convinzione era che in pochi mesi le “forze del mercato” avrebbero condotto il mondo fuori dalla catastrofe.
Le cose non andavano diversamente nel Regno Unito. Qui il governo di MacDonald, che pure era un laburista (almeno nominalmente), rifiutò per oltre un anno di abbandonare il gold standard, cardine dell’ideologia liberomercatista dell’impero britannico.
Da una parte e dall’altra dell’Atlantico i decisori politici erano ossessionati da una sola cosa: il mantenimento degli equilibri di bilancio.
Sappiamo bene come andò a finire l’intera vicenda. Il liberismo inasprì la crisi, nel giro di pochi mesi la produzione andò a picco e la disoccupazione raggiunse livelli vertiginosi. Da punto di vista politico questo fu il brodo di coltura in cui nacquero nuovi regimi autoritari (il nazismo in Germania) e si consolidarono quelli esistenti (il fascismo in Italia). La strada per la seconda guerra mondiale era spianata.
Ciò che le classi dirigenti delle democrazie liberali non capirono era che il modello liberista era ormai impraticabile. In effetti, esso era già crollato con la Grande Guerra, che aveva spazzato via tutti gli equilibri ottocenteschi. All’epoca, però, non lo si volle riconoscere, e per un intero decennio ci si comportò come se fosse possibile riavvolgere il nastro della storia e tornare alle condizioni prebelliche. Risultato: il liberismo nostalgico che dominò gli anni Venti fu la principale causa della catastrofe del 1929.
Perché si uscisse dall’incubo ci volle un radicale cambio di paradigma politico-economico, ossia la rinuncia all’ideologia liberista e l’adozione della visione keynesiana. Gli Stati Uniti si misero su questa strada con il New Deal di Roosevelt; il Regno Unito compì pienamente la svolta nel dopoguerra, con i piani Beveridge e i programmi del governo Attlee.
La crisi in cui ci troviamo oggi è naturalmente molto diversa da quella del 1929. C’è tuttavia un punto di contatto tra i due casi storici: l’incapacità delle classi dirigenti europee di leggere la realtà.
Anche oggi gli equilibri di bilancio sono un feticcio a cui sacrificare ogni altra cosa. Anche oggi si intende affrontare l’emergenza con strumenti vecchi e che si sono già dimostrati fallimentari (l’austerità dei conti pubblici, i tagli della spesa, il privilegio ideologico accordato all’iniziativa privata, la limitazione draconiana degli interventi statali…). Anche oggi, infine, non ci si vuole rendere conto che il modello che ancora si propone è morto da tempo (ricordate il crack di Lehman Brothers nel 2008?) e i tentativi di rianimarlo non sono serviti a nulla, anzi hanno finito per minare profondamente la tenuta economica e la coesione delle nostre società.
Ci si può stupire dell’accanimento con cui, a volte, si arriva a negare l’evidenza, e in effetti siamo sempre impreparati quando ci tocca constatare come l’ideologia sia in grado di occultare la realtà. Ma è proprio quello che sta succedendo. Il reiterato fallimento dell’Eurogruppo nell’individuare misure innovative per affrontare la crisi che stiamo vivendo non fa che attestarlo. I paesi nordici, i “falchi del rigore”, non riescono a capire che il mondo che hanno in testa, molto semplicemente, non esiste più, e il loro oltranzismo ideologico, se non sarà sconfitto, finirà per affondare tutta l’Europa.
Oggi ci serve un cambio radicale di prospettiva, ci servono Roosevelt e Attlee, ma qualcuno continua a proporci la conservazione, Hoover e MacDonald.