Egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non vi son più.

Non ci sono scuole in appartamento a Scampia. La smentita delle parole della prof.sa Azzolina è arrivata puntuale, dopo che la medesima con questa affermazione aveva voluto dipingere (o specillare?) la realtà variegata della scuola italiana: se da una parte ci sono scuole ipertecnologiche, dall’altra, appunto, Scampia. Il Ministro era in conferenza stampa, venerdì pomeriggio, alla presentazione dei nuovi provvedimenti sulla scuola, ma aveva già usato la medesima esemplificazione nell’intervista rilasciata alla “Stampa” e pubblicata quella mattina stessa (articolo a cura di Francesca Schianchi, pag. 3, nel Primo piano / Il nuovo anno scolastico: anche qui il Nord ipertecnologico e Scampia devono formare una coppia di icone antitetiche, di facile presa, e per questo abbastanza oleografiche: “Detto questo, però, bisogna tenere conto della realtà della scuola italiana. Da me dipendono 8500 istituti scolastici e migliaia di plessi. Ci sono posti [sic] come Scampia in cui si fa lezione negli appartamenti, e ci sono a Nord scuole ipertecnologiche”); purtroppo poi la smentita, riportata dai vari quotidiani nazionali, è arrivata dal Ministero stesso, che in serata ha ritrattato: “La scuola nell’appartamento non è a Scampia” (leggo la nota in “la Repubblica”).

Una (e)semplificazione, fondata su un certo immaginario difficile da sfatare e contro il quale hanno speso in molti le loro forze migliori, e per questo forse tanto più immeritata e inopportuna. I fatti però restano, come però restano anche, a prescindere dalla gaffe particolare, le realtà di scuole in appartamento come quella evocata nelle parole del Ministro. Ci sono sempre state, scuole così, è un fatto.

Oggi però è diverso. Mi dà le parole Massimo Giannini, nella sua rubrica Lettere al direttore, sempre in “La Stampa” (cito dal web, 27 giugno): “Anche nel sistema dell’istruzione, insieme a quello della sanità, il Coronavirus ha avuto un effetto quasi “epifanico”. Dopo anni e anni passati a fare dissennati tagli lineari alla spesa pubblica, abbiamo scoperto che i pilastri del nostro Welfare (che non è fatto solo di pensioni, anche se la previdenza assorbe il 60% della spesa sociale del Paese) stanno venendo giù miseramente”. 

Oggi è diverso anche per l’esame di stato. Quest’anno, anche il dibattito sull’esame di stato, che del “sistema dell’istruzione” fa parte, è risultato più attento e più vario. Certamente diverso dai consueti, e più prevedibili, inevitabili pronunciamenti di stagione. E più vario. Perché questo dibattito è emerso (in questo l’effetto “epifanico” di cui parlava Giannini, se intendo bene) a causa di una concreta situazione di ‘vissuto’ individuale reale che ha coinvolto tutti noi, chiamandoci in causa. Con il risultato che la realtà dell’emergenza ha imposto e finalmente reso improcrastinabile un confronto sulle esigenze e sulle novità, anche in ambito scolastico: sulla situazione dei luoghi, sui provvedimenti, sulle modalità della didattica più in generale, e in particolare in riferimento all’esame di stato.

La centralità dell’esame di stato nel sistema dell’istruzione e dell’educazione. Di questo esame / e di un esame conclusivo di un ciclo scolastico, non si sottolineerà mai abbastanza la centralità nel sistema dell’istruzione e dell’educazione (sulla differenza sostanziale tra educazione e istruzione rinvio alle recenti considerazioni contenute nell’appello, contro la prospettiva di un “modello in remoto”, a cura di Umberto Curi e Massimo Cacciari, pubblicato in “La Stampa”, 18 maggio 2020: La scuola è socialità. Non si rimpiazza con monitor e tablet).  Rispetto all’esame in vigore dal giugno 1999 l’esame conclusivo delle superiori era già stato modificato sostanzialmente, quanto alle prove scritte e all’orale, con l’OM 11 marzo 2019 n. 205, che recepiva le novità introdotte a seguito di un precedente decreto legislativo (Dlgs 13 aprile 2017 n. 62). Quanto alla prima prova scritta, in particolare, essa si uniformava alle indicazioni già contenute in un Documento di lavoro elaborato da un gruppo nominato dal Ministero, quindi alle Linee guida contenute nel già citato Dlgs che avevano avuto seguito in un decreto ministeriale (DM 26 novembre 2018 n. 769 e Nota prot. 19890 della medesima data). Nello specifico, Luca Serianni, lo studioso già chiamato a presiedere quel gruppo di lavoro, non aveva mancato poi di osservare molto opportunamente che “dal punto di vista strettamente didattico, le Linee guida sono rivolte all’esame finale, ma rappresentano anche un suggerimento all’insegnante per valorizzare e orientare il lavoro durante l’anno” (Luca Serianni sulla riforma della prima prova dell’Esame di Stato, in laletteraturaenoi.it, 24 dicembre 2018). Certo un insegnante che sa cosa si dovrà verificare in una prova sommativa e conclusiva di un intero corso di studi deve adeguare le proprie strategie didattiche in vista di quell’obiettivo. E deve lavorarci per tempo con un anticipo di anni, mentre quell’anno (dal 26 novembre 2018 in particolare, come si è visto) le indicazioni modificavano sensibilmente l’esame già per gli studenti che, frequentando l’ultimo anno, avrebbero sostenuto quel nuovo scritto alla fine di quell’anno stesso (tuttavia in quell’anno il Ministero ha proposto – direi ottimamente a livello di procedura – due simulazioni per ciascuno dei due nuovi e modificati scritti d’esame, che sono state un valido aiuto per gli studenti). A prescindere però da quelle vicende particolari dell’anno scolastico 20018-2019 e dell’esame 2019, era previsione per gli anni successivi – e quindi anche per questo esame di stato 2020 – che si sarebbe confermato quel tipo di prove, e quindi anno dopo anno si sarebbe sempre più ridotto lo scollamento tra i tempi lunghi della didattica (e della necessaria progettazione) e le sempre più ‘rodate’ modalità dell’esame di stato. Quest’anno invece le cose sono andate diversamente e, a causa dell’emergenza, vista l’impossibilità di far svolgere le due prove in forma scritta, quelle tipologie di prova già previste sono state prescritte in forma orale (proprio forse anche per riconoscere la giusta importanza e dignità al lavoro pregresso, la prova caratterizzante per ciascun tipo di scuola e l’analisi del testo di Italiano hanno avuto anche normativamente uno spazio autonomo nel colloquio, rispettivamente come prima e seconda fase del colloquio stesso: OM 16 maggio 2020 n. 10, art. 17 c. 1).

Una premessa e alcune questioni generali non pertinenti? Che cos’è l’esame di stato. Ma sull’esame di stato dobbiamo ricordare, prima di ogni altra considerazione, una questione generale: che cos’è, che scopo ha l’esame di stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione (in generale e in rapporto a quel ciclo di studi di cui è il necessario completamento). Su questo si esprime chiaramente il già citato Dlgs 13 aprile 2017 n. 62, Capo III art. 12, Oggetto e finalità dell’Esame di Stato, c. 1 (la normativa successiva è irrilevante, perché o lo presuppone, oppure – è il caso della normativa di quest’anno, il Decreto-legge 8 aprile 2020 n. 22, e l’OM 16 maggio 2020 n. 10 – dà indicazioni operative specifiche in rapporto alla situazione eccezionale di quest’ultimo anno):

L’Esame di Stato conclusivo dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado verifica i livelli di apprendimento conseguiti da ciascun candidato in relazione alle conoscenze, abilità e competenze proprie di ogni indirizzo di studi, con riferimento alle Indicazioni nazionali per i licei e alle Linee guida  per gli istituti tecnici e gli istituti professionali, anche in funzione orientativa per il proseguimento degli studi di ordine superiore  ovvero per l’inserimento nel mondo del lavoro.

Una prima questione. Dunque una prima questione è se l’esame di stato di quest’anno è coerente con queste indicazioni, ma essa non vale né più né meno del problema più generale, sulla realizzazione di queste finalità dall’esame negli altri anni scolastici. Su questo si potrebbe arrivare a conclusioni di totale sfiducia: anche quest’anno – ma si ripresentano ciclicamente – sono state espresse non poche perplessità da parte di chi, negando una reale utilità all’esame, ne sostiene l’abolizione. Su questo punto sono molto interessanti le recenti argomentazioni di Claudio Giunta, L’esame di maturità dovrebbe essere abolito, in “Internazionale, 1 giugno 2020. Due settimane prima dell’esame: un bel saggio, molto articolato, attento anche e soprattutto alla questione particolare dell’inutilità di quello che allora era il previsto esame in presenza, in relazione alla confusione e alle incertezze con cui si stava realizzando questo esame, e soprattutto in considerazione di un bilancio sul rapporto tra dispendio di energie (non solo a livello organizzativo ed economico) e benefici che questa prevista forma di esame avrebbe comportato. Anche in questo caso la questione particolare andrebbe forse collegata alla realtà più generale secondo cui si è svolta la didattica, a partire dalla fine di febbraio: soltanto lezioni a distanza. Lezioni, per di più molto caldeggiate (in forma sincrona o asincrona, cioè in streaming o con video pre-elaborati dai docenti). Allora, perché la forma in presenza all’esame?  Su questo, cfr. anche le nostre conclusioni.

Un riconoscimento all’impegno e alle scommesse affettive degli studenti. Questa forma poteva forse essere – e forse lo è stato – anche un riconoscimento all’impegno e alle scommesse affettive sull’esame nell’immaginario degli studenti. Valgano per tutto le considerazioni di una mia allieva, intervistata da “la Repubblica” al termine dell’orale in presenza (Maturità, il “maxi orale” della 18enne Martina al Cavour di Torino, ed. web, 17 giugno): “Sono contenta di essere passata il primo giorno e di aver potuto sostenere l’esame in presenza: online non mi sarebbe sembrato di finire davvero”. Certo, anche nella scuola, soprattutto nella scuola, la dimensione affettivo-emotiva è essenziale. Ma è pur vero che non discende la necessità dell’esame in questa forma in presenza dalle caratteristiche e dagli scopi dell’esame di stato previsti dalla citata normativa.

Un passaggio importante della vita dei “giovani adulti”? Dunque, dal medesimo, chiaro pronunciamento del già citato Dlgs 13 aprile 2017 n. 62 non deriva di necessità la giustificazione dell’esame in presenza. Si possono però chiamare in causa altre ragioni estrinseche, sempre riferite a un certo immaginario (quale?) sul momento esistenziale-esperienziale insostituibile rappresentato dagli esami. Una motivazione – questa sì – che è stata presentata come decisiva, e per questo ripresa ancora recentemente, ma già in precedenza ben ‘divulgata’ anche nei libelli scolastici, in anni di scuola regolare e naturalmente senza derivarne l’opzione sugli esami. Cito dal paragrafo intitolato appunto (ma in forma assertiva) Un passaggio importante della vita dei “giovani adulti”:

Con la prima prova scritta di Italiano iniziano gli esami di Stato. È una prova alla quale non solo studenti e insegnanti, com’è ovvio, attribuiscono una grande importanza, ma l’opinione pubblica in generale vi  [sic] presta molta attenzione, in quanto nelle scelte ministeriali dei titoli e dei temi da trattare, nelle preferenze espresse dagli studenti a favore di questa o quella opzione, nei risultati conseguiti si tende a riconoscere una sorta di fotografia della gioventù [sic] italiana [sic] in quel [?] determinato momento storico. In effetti, se l’esame in generale è un tradizionale “rito di passaggio” che marca simbolicamente l’ingresso dei giovani nella vita adulta, la prima prova scritta riflette la vita di ciascuno, il personale “tesoro” di conoscenze, competenze ed esperienze, l’individuale mondo interiore fatto di sentimenti e riflessioni, e, considerata nell’insieme dei candidati di uno specifico anno scolastico, prospetta una linea di tendenza della società nel suo insieme.

È giusto, quindi, che gli studenti si preparino a questo passaggio importante della propria vita con il dovuto impegno, ma anche con le consuete preoccupazioni, ma al contempo confidando in se stessi, ormai “giovani adulti” (Degl’Innocenti, 2019; il grassetto è dell’autrice).

 Ma anche questa motivazione non discende dalla normativa di riferimento. Videant doctiores.

C’è (per fortuna), la Costituzione italiana. Eppure, a motivare lo svolgimento dell’esame in generale, e a prescindere da una specifica modalità operativa, c’è che esso è e resta necessario, come garanzia e tutela fondamentale: “È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale” (art. 33 della Costituzione italiana). E questo in nome di un principio di uguaglianza che riconosca i diritti dei capaci e dei meritevoli, a prescindere dai mezzi e dalle eventuali loro situazioni di svantaggio (art. 34 della Costituzione). Che è poi il compito che la nostra Repubblica si assume (art 3 della Costituzione). E che è stato anche uno dei più alti compiti che la scuola ha cercato di realizzare.

“Principiis obsta”, i filologi inglesi del Novecento, la questione fondamentale (e Leopardi). Divagando (ma non troppo) voglio ricordare una massima che – ricavata da Ovidio – è stata spesso applicata nella critica testuale a rivendicare l’importanza dei casi particolari: principiis obsta, resist principles. C’era, in questo, in nome della pratica concreta dell’interpretazione testuale, tutta l’avversione della scuola filologica inglese contro quanto di “scientifico” era proposto dai ‘cugini’ (amici/nemici) tedeschi (o contro la loro riduttiva pretesa di interpretare in modo ‘scientifico’). In quel caso avevano alle spalle secoli di due diverse e altrettanto grandi scuole.  Con la Costituzione italiana e gli esami di stato la questione è un poco diversa (ma non troppo). Non si tratta in questo caso dimettere in discussione i principi: nel caso specifico dell’esame i principi sono sacrosanti, e sacrosante le motivazioni ideali che li hanno ispirati. Tuttavia ci si può chiedere – si deve farlo – se la realtà dei fatti ne consenta la realizzazione nella prassi concreta dell’esame. Una prima risposta può condurre a una sfiducia radicale, che può portare a negare l’importanza dell’esame stesso, fino a chiederne l’abolizione, perché oggi inutile (è quanto abbiamo visto già proposto in precedenza, secondo motivazioni leggermente diverse). Un’altra invece può, in modo più articolato, e senza derogare in nulla dai motivi ideali, verificare contrastivamente se questo esame, rispetto ai precedenti, assolva a questa sua funzione primaria, anche rispetto alle potenzialità che ad esso si potevano attribuire. La soluzione più semplicistica ancora, del laudator temporis acti se puero, di un esame che era necessariamente meglio in passato perché il passato era meglio, non mette conto di essere considerata.  Anche Leopardi (l’ho citato all’inizio) parte da una considerazione che sembrerebbe anche dell’uomo comune di oggi (le cd. mezze stagioni!) per procedere a smentire questa facile valutazione delle cose (la citazione è dalla Zibaldone, pag. 4242 sg. [data 7.1827, 8.1827] = p. 2358 sg. ed. G. Pacella; anche Leopardi cita il motto oraziano).

L’esame è contro le discriminazioni. E questo esame? Poco sopra abbiamo sottolineato che l’utilità dell’esame è anche nel fatto che esso deve servire a realizzare nella prassi una reale uguaglianza tra gli studenti. Perché propone una valutazione che mette di nuovo ognuno e tutti alla medesima linea di partenza, e quindi può rappresentare una conferma, o una verifica, o aprire a una valutazione diversa rispetto a quelle già cristallizzate negli anni dal consiglio di classe e dagli insegnanti, sulle quali potrebbe pesare anche la consuetudine. Purtroppo anche nei voti può pesare lo scotto che deriva dall’abitudine. L’esame invece potrebbe lasciare più spazio alle variazioni.  Tuttavia, rispetto alla questione generale dell’utilità e delle finalità dell’esame di stato, che nessuno nega fra coloro che ancora sostengono la necessitò della prova, ci si deve chiedere in particolare se – e come – quest’anno le modifiche sulle modalità dell’esame (quelle appunto prescritte dall’OM 16 maggio 2020 n. 10), per quanto motivate dalla contingente situazione di emergenza, realizzino ancora nei fatti questa esigenza essenziale. Può a questo proposito venire utile anche un confronto con le caratteristiche degli esami degli anni precedenti. 

Variazioni, e conseguenze in sostanza / di sostanza. La situazione pregressa comportava tre diversificate prove d’esame, cioè due scritti e un orale (fino a 20 punti per ciascuna prova), sottocommissioni miste (tre commissari esterni e tre interni, con un’incidenza del pregresso Consiglio di classe interno pari solo alla metà dei docenti), un punteggio attribuito al curriculum interno fino a un massimo di 40 punti sul totale di 100 punti d’esame. Quest’ultimo anno, invece, il maggiore peso dato al curriculum scolastico pregresso nell’ultimo triennio, portato a un massimo di 60 punti, sul totale (invariato) dei punti d’esame (art. 10, cc. 1-2), ha di fatto invertito il rapporto tra le prove d’esame e i risultati scolastici conseguiti in precedenza: così attribuendo all’esame – che quest’anno prevedeva soltanto lo svolgimento della prova orale (art. 16 c. 1) – una minore incidenza relativa (e importanza) quanto alle possibilità di valutazione e di variazione rispetto al pregresso (all’esame restano solo fino a 40 punti sul punteggio totale: art. 17 c. 5). E poi è variata la composizione delle commissioni: un’unica commissione con presidente esterno unico è costituita da due sottocommissioni (di fatto: corrispondenti a due classi) costituite ciascuna da sei commissari appartenenti all’istituzione scolastica sede di esame (di fatto: ogni sottocommissione è formata da sei commissari, scelti dal Consiglio di classe tra i vari docenti della classe nell’ultimo anno). Inoltre ridurre l’esame all’unica prova orale, per quanto molto ben regolata, articolata e scandita nelle sue componenti (art. 17), avrebbe dato minori elementi a disposizione per la valutazione stessa. E di questa prova, pur con componenti numerose e diverse, l’ordinanza sottolineava che occorreva curare l’equilibrata articolazione con una durata indicativa del colloquio fissata in 60 minuti, confermando in questo dettaglio la normale e consueta prassi d’esame. Inoltre ancora il Ministro, in vari interventi a voce, aveva prospettato anche il suo personale desiderio e l’opportunità che il colloquio lasciasse spazio, in luogo dei saluti di rito, a qualche considerazione più personale del singolo studente su come fosse stato vissuto il periodo dell’emergenza. In sostanza: poiché gli studenti erano valutati dai loro insegnanti, l’apporto esterno è stato limitato alla persona (e alle personali capacità ed esperienza) del presidente. È una variazione non irrilevante di sostanza, anche solo rispetto all’esame del 2019 organizzato in base alla precedente normativa.

Poteva essere diverso? Del resto, gli studenti arrivavano all’esame dopo un’esperienza, quella determinata dal lockdown, mai verificatasi nella storia italiana, con un vissuto ben rilevante a livello personale in termini emotivi, familiari, di strumenti a disposizione, di abitudini di vita e di studio sconvolte. La situazione era oggettivamente diversa da quella a monte di un  normale esame e forse la nomina degli insegnanti di classe poteva essere importante, in questa situazione di eccezionalità venuta a crearsi negli ultimi mesi, proprio soprattutto nell’ottica di una ipotesi di valutazione più obiettiva per quell’esame del tutto atipico, le cui circostanze di eccezionalità dovevano essere commisurate alle situazioni reali precedenti (di profitto, ma anche a livello personale di ciascuno studente) note agli insegnanti di classe.  Inoltre di queste modalità dell’esame gli studenti e le scuole sono venuti a conoscenza un mese prima dell’inizio dell’esame, sicuramente in tempo ampiamente scaduto, dopo incertezze, notizie confuse, continue dilazioni e anticipazioni contraddittorie. Non si sapeva con certezza, prima del 16 maggio, cioè fino alla pubblicazione dell’ordinanza sugli esami, neppure se l’esame si sarebbe sostenuto in presenza o in streaming. Ciò ha poi determinato anche altre intempestive variazioni dei tempi. Come lo slittamento alla fine del mese della pubblicazione del documento del consiglio di classe, solitamente prescritta per il 15 maggio; eppure c’erano variazioni sostanziali: insegnanti di alcune materie hanno dovuto organizzarsi per modificare in quel poco tempo aggiunto, a quindici giorni dall’esame, la didattica stessa e la sua enunciazione nel documento, in vista di un esame profondamente diverso nel suo svolgimento. Penso in particolare all’Italiano, con la richiesta di esplicitare (alla fine di maggio) la scelta di alcuni testi (un breve testo nella dicitura ministeriale) più importanti tra cui uno sarebbe stato proposto al candidato (art. 17 c. 1, b).  E comunque, in generale, queste prescrizioni dell’ultimo momento hanno determinato strascichi pesanti ancora molto dopo: la confusione originata negli studenti è continuata fino a poco prima dell’inizio dell’esame, a una sola settimana dal via. Un quadro preoccupante che emerge in OrizzonteScuola.it, 12 giugno 2020 (Maturità 2020, una settimana al via: ancora incertezze sul nuovo maxi-orale: è riportato un sondaggio sulla percezione e la conoscenza del nuovo esame da parte degli studenti, condotto da Skuola.net).

L’esame alla prova dei fatti. Ma ora, quando quasi tutte le commissioni hanno terminato i lavori, può essere già tentato un primo bilancio, da coloro che l’esame lo hanno vissuto in prima persona. Gianni Oliva in un bell’intervento su “La Stampa”, venerdì 26 giugno, pp. 31-32 (La Maturità Covid annulla le differenze), mette in guardia rispetto alla prevedibilità dei contenuti della prova orale e rispetto al poco tempo previsto a disposizione per una reale occasione di colloquio e di dibattito. Dell’autore condivido l’avversione contro il vezzo (vizio?) scolastichese degli acronimi (francamente, PCTO è impronunciabile; ma dopo quello di vari anni fa, di POF – ben più impressionante, o immaginifico, a seconda dei casi –, può andar bene tutto). Ne condivido la personale delusione sull’esame, e su questo in particolare, come un’occasione mancata, anche “rispetto alle previsioni”. Le considerazioni (poco celebrative e poco ottimistiche in vari casi) che emergono nello specifico sui dettagli dell’esame danno anche un quadro ricco nei dettagli. Ma mi pare molto importante soprattutto uno spunto di ben più ampia portata che emerge fin dal titolo (La Maturità Covid annulla le differenze, sottolineatura mia), e poi ancora più esplicitamente nel cuore argomentativo, quando si sottolinea, contro la banalità e l’appiattimento, che “bisogna ‘far pesare’ il giudizio di chi conosce i candidati da cinque anni per evitare che un colloquio troppo facile inflazioni i risultati di voti alti e annulli le differenze di merito”. Su alcuni di questi punti ho cercato di esprimermi anch’io in precedenza. A Gianni Oliva, che ho avuto la fortuna di avere come preside – purtroppo per breve tempo – ho già segnalato che è l’esame stesso a dover essere ripensato, perché questo esame, a prescindere dai dettagli determinati dall’eccezionalità della situazione, non è molto diverso dagli esami precedenti. Certo quest’anno la commissione con sei commissari interni ha impedito ‘sorprese’, in positivo, o i dannosi ‘appiattimenti’ in negativo (che potevano verificarsi a causa dell’appiattimento che le modalità dell’esame potevano comportare).

Il momento della verifica. Gli anni passati e la confusione operativa. Comunque è mancato un reale momento di verifica (per di più lasciando fuori materie essenziali: da me erano una scelta obbligata Italiano e Latino/Greco, e si sono aggiunte Storia e Filosofia, Storia dell’arte, Scienze, Inglese. Matematica e Fisica sono state escluse perché – a detta dei colleghi di quel dipartimento – si sarebbero richiesti esercizi e dimostrazioni a scapito del distanziamento). Eppure, c’erano già stati esami con un unico presidente per l’intero Istituto e commissari tutti interni nelle diverse classi (ricordo bene le lunghe riunioni con un presidente ex allievo del Cavour e preside di un liceo scientifico, durante gli esami di quegli anni). Quanto ai tempi più recenti, l’esame era già stato snaturato lo scorso anno, quando l’abolizione della terza prova aveva di fatto già impedito una valutazione più varia e diversificata dei candidati, semplificandone la preparazione: sono scelte politiche pregresse che non derivano dall’emergenza di quest’anno, e che prevedo siano definitive. per di più. le commissioni “mezze esterne” non sono – spesso – una migliore garanzia; a volte, soprattutto con il presidente e i commissari esterni della medesima città -anche gli esterni non hanno contribuito a una valutazione obiettiva, ma hanno originato conflitti interni alle commissioni. Qualcosa di meglio c’era con le commissioni che provenivano da tutta Italia, con unico membro interno (si chiamava così): io allora (anni ’80 – primi anni ’90) ero al Gioberti e avevo ormai questo incarico confermato negli anni. Ma i giudizi analitici e sintetici? e le due materie “pilotate” su quattro? Eppure tutti noi abbiamo sostenuto, da studenti, quell’esame (in vigore dal ’69 in forma che era dichiarata temporanea e il cui carattere provvisorio sarebbe stato invece confermato per vent’anni fino al 1998), e non è che fossimo meno preparati o peggio valutati degli studenti che hanno poi sostenuto altri e diversi tipi di esame. Di inghippi ce ne sono sempre stati – ma forse in misura minore – ; ricordo che al mio esame, era il 1976 al Cavour – fu sostituita la seconda prova scritta (la versione dal latino in quell’anno), perché una pia suorina di un Istituto privato aveva controllato nella cassaforte della sua scuola (in quegli anni le prove non erano inviate per via telematica, ma erano affidate ai presidi con una procedura che coinvolgeva Carabinieri e Pubblica Sicurezza) e aveva trovato una busta, e la busta la aveva aperta e allora aveva scoperto che conteneva la versione da assegnare il giorno dopo. E quindi la sostituzione (che ci sarebbe stata, ne informava il Telegiornale la sera prima), e la versione che arrivava in moto al mattino della prova, portata da un appuntato dei Carabinieri. Quest’anno le incertezze operative sono state maggiori, e fino all’ultimo: però anche nel 1999 ci informarono a metà gennaio (certo, qualche mese prima, ma sempre tardi) del nuovo esame, con “tesine” e nuove tipologie di temi (era quell’esame poi continuato, con aggiustamenti relativi alla composizione delle commissioni, fino al 1998, per quasi un altro ventennio). Ma questa confusione, anche normativa, di quest’anno, non so fino a che punto dipenda da motivi contingenti, o non rifletta a pieno titolo una linea involutiva strutturale già ben caratterizzata negli anni precedenti.

Però l’esame d’emergenza è destinato a continuare. Certamente a proposito dell’esame di stato di quest’anno ci si può augurare, con Gianni Oliva: “Insomma, nell’emergenza meglio questa Maturità che nulla, ma non venga in mente a nessun ministro di ripeterla ancora”. Ma bisogna concludere che almeno un elemento ben sostanziale dell’esame continuerà per altri anni a generare conseguenze di rilievo sulla valutazione finale. È il già ricordato conteggio fino a 60 punti attribuito al curriculum interno (rispetto al precedente di 40 punti, invece più sbilanciato – e giustamente – a favore dell’esame, come si è visto). Su questo l’OM 16 maggio 2020 n. 10 art. 10 c. 1 sembra riferirsi solo al credito scolastico relativo al triennio frequentato dai candidati di quest’anno (“Il credito scolastico è attribuito fino a un massimo di sessanta punti di cui diciotto per la classe terza, venti per la classe quarta e ventidue per la quinta”). Ciò ha determinato, insieme all’assegnazione del nuovo punteggio nello scrutinio di ammissione all’esame, relativamente all’ultimo anno scolastico frequentato dagli studenti, anche la conversione sulla nuova scala dei crediti già assegnati a ciascuno negli anni precedenti, in terza e in quarta (art. 10, c. 2), con precedente valutazione su base 40. Tuttavia la stessa, nuova scala di valutazione del credito (su base 60) è stata assegnata quest’anno alle altre due classi del triennio nello scrutinio finale, procedendo anche per la quarta alla conversione del precedente punteggio assegnato alla classe in terza lo scorso anno scolastico. Dunque continuerà nei prossimi anni scolastici il rapporto tra triennio scolastico pregresso ed esame, di 60 vs 40, a netto favore del primo e a scapito del secondo.

Un banco di prova per una scuola nuova? Il quadro che ne è emerso potrebbe essere disperante. Ma sì è visto anche che, a prescindere da alcuni difetti che sono stati acuiti da questa particolare situazione di emergenza, alcuni motivi di fondo risalgono a una serie di vicende ricorrenti nel lungo corso. Per non trovare in ciò la conferma della necessità di abolire l’esame di stato, o per non sottostimare la realtà, bisogna convincersi che la pandemia ha affrettato l’esigenza di una riflessione e di una rifondazione, su tutti i livelli, del sistema-scuola e in particolare dell’esame che di esso è la chiave di volta. La situazione attuale è quella su cui si è pronunciato Giannini. Ma questa situazione dev’essere l’occasione e l’incentivo per una riflessione strutturale non più procrastinabile, a vantaggio non solo della scuola ma dell’intera società civile.

In ogni caso serve a poco continuare l’incertezza fin quasi al “tempo scaduto”; ed altrettanto sterile è privilegiare il passato di per se stesso: come si faceva già al tempo di Leopardi, da parte di chi rimpiangeva “le mezze stagioni”. Tra l’altro, Leopardi nello Zibaldone ricordava una convinzione comune, come oggi, ma ai tempi era su un clima che si immaginava divenuto più rigido con gli anni: “il freddo acquista terreno”.      

Armando Golzio

Un corollario: DaD o DiP? Tra apocalittici ed integrati? Per la cronaca, e per gli interessati agli acronimi: didattica a distanza, cioè DaD, è fare lezione in streaming (dicono anche in modalità sincrona, quando è un collegamento live, in diretta; quando invece è un video preregistrato la modalità è asincrona), mentre DiP significa didattica in presenza, cioè fare lezione in classe. Cioè in modo più tradizionale.

Una necessità. Ma la didattica a distanza è venuta precisandosi nell’evolversi della situazione di forzata chiusura della scuola, come unica forma possibile di interazione tra docenti e studenti, come risposta che l’istituzione scolastica deve fornire alle aspettative di crescita culturale, umana e civile degli studenti, e come garanzia dell’inalienabile diritto all’istruzione sancito dalla nostra Carta costituzionale (articoli 33-34).

Perché la didattica a distanza. Così come sulle modalità dell’esame, anche la questione del significato e dell’efficacia dell’azione didattica ha dovuto confrontarsi con la nuova realtà emergenziale, che ha indotto a ricorrere a una didattica tecnologicamente più agguerrita, e soprattutto all’inizio magnificata per le sue implicazioni progressive (le magnifiche sorti…) perché a prova di una scuola finalmente al passo con i tempi. Anche da questo è scaturito un dibattito aperto, e serrato, tra ‘apocalittici’ ed ‘integrati’ (l’espressione, che si richiama a Eco, è usata in DAD. Confronto aperto tra apocalittici ed integrati, in tuttoscuola.com, 1 giugno 2020), in cui gli schieramenti hanno potuto vantare l’articolata, importante riflessione del già citato appello di Massimo Cacciari (pubblicato in “La Stampa”, 18 maggio 2020) che ha determinato, sul versante opposto, la replica del Ministro, in una lettera al medesimo quotidiano il giorno successivo: La ministra Azzolina risponde a Cacciari: la scuola ha bisogno del digitale; su tutto cfr. Cacciari-Azzolina, scontro epistolare sulla DaD, in tuttoscuola.com, 25 maggio 2020).

Un passaggio complicato. Sicuramente la scuola era impreparata a questa svolta. Nonostante le premesse e le promesse di cambiamento già evocate in slogan (le “tre i”, tra cui appunto, Internet), sfociate però a livello scolastico in una politica di tagli indiscriminati sotto il Ministro Gelmini (C’erano una volta le ‘tre i’, in tuttoscuola.com, 1 settembre 2013). Troppo spesso, poi, in anni più vicini, si è sentito il bisogno di una reale progettualità a medio/lungo termine con il coinvolgimento degli insegnanti. E il lockdown, a seguito delle nuove esigenze didattiche e scolastiche obbligate dall’emergenza, ha fatto emergere la crisi, grave e generalizzata, non soltanto in rapporto alle modalità della didattica. Nella quale, soprattutto nei primi tempi, molti docenti sono stati costretti a sopperire con la propria buona volontà, con dispendio di mezzi e strumenti personali, a pesanti carenze strutturali, come l’assenza totale di supporti e di una almeno accettabile formazione.  E sicuramente le lezioni a distanza sono state più onerose ed impegnative. In alcune scuole siamo stati più fortunati, anche perché tra gli studenti erano poco frequenti situazione di esclusione e di svantaggio creati dall’assenza dei mezzi informatici o da particolari realtà. In questi ultimi casi, una didattica a distanza acuisce le disuguaglianze (cfr. M.T. Martinengo, Torino, la ricerca choc: “Con le lezioni on line spariti dai radar della scuola centinaia di alunni”, “La Stampa”, TopNews/Edizioni locali/Torino, 24 maggio 2020: Il report della Rete Italiana di Cultura Popolare dimostra che tanti adolescenti tra i 14 e i 16 anni non hanno partecipato alla didattica a distanza); per questo occorre evitare “una scuola che neghi il presupposto costituzionale dell’uguaglianza formale e sostanziale, messo in dubbio dall’uso delle nuove tecnologie” (Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc-Cgil).

Molti insegnanti, inoltre – per convinzioni e anzianità di docenza – hanno sempre ritenuto insostituibile la lezione in classe, e lo credono ancora; dunque non avevano mai pensato a questa possibilità diversa di insegnamento. Perché “dare superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver colto il fondamento culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di una tradizione che dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere allegramente rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla distribuzione di tablet”, appiattendo così “il complesso processo dell’educazione sulla dimensione riduttiva dell’istruzione” (Cacciari / Curi). Tuttavia la situazione di necessità ha consentito una nuova esperienza didattica, a prescindere. Con molti difetti, ma era l’unica possibile per necessità.

Sulle nuove tecnologie. Per fare degli esempi (distanti ma non troppo). Il caso dei Musei e del patrimonio artistico può essere considerato simile. I Musei richiedono una fruizione diretta delle opere. Ma la situazione di emergenza ne ha imposto la chiusura. Eppure, c’è stata una grande attività che non ha interrotto almeno la comunicazione. Penso al grande seguito che hanno avuto su Facebook varie rubriche che illustravano, in modo diretto, efficace e accessibile (non solo nel linguaggio) singole opere. Penso all’Egizio, da noi. Penso anche agli Uffizi, o al Museo Nazionale Etrusco (attivissimi, il secondo già da prima), o al Prado, o al Louvre… In ambito più vicino all’ambiente scolastico, tra le tante forme di comunicazione in e-learning e i tanti incontri in streaming in cui è attivissima, il progetto della Normale di Pisa per le scuole: l’iniziativa, “La Normale va a scuola”, alla quale ho partecipato con la mia classe dell’ultimo anno perché consentiva un confronto e un ripasso con le attività didattiche (nel caso specifico, la letteratura e gli autori latini) consisteva in un programma di lezioni virtuali tenute da docenti, ricercatori e ricercatrici della Scuola su argomenti afferenti al programma scolastico (lezioni online, sulla piattaforma Google Meet gestita direttamente dalla Scuola Normale: cfr. https://www.sns.it/it/normale-va-scuola-un-aiuto-alle-scuole-ditalia-0). E in questi medesimi tempi di lockdown la medesima Normale ha organizzato, attraverso il suo canale digitale e su YouTube, una lettura collettiva di tutto il Decameron, una parte di una novella/una /varie novelle al giorno per alcuni mesi, con una partecipazione eccezionale di ‘lettori’, che hanno rinnovato una lunga tradizione di condivisione e cultura (l’iniziativa era organizzata dagli allievi e dalle allieve della Scuola: cfr. sul portale della Scuola la pagina Le letture della Normale, https://www.sns.it/it/letture-della-normale). Ora tutte le novelle del Decameron sono su Facebook e su YouTube, oltre che disponibili sul sito (dove ogni giorno, durante lo svolgimento dell’iniziativa, la singola lettura compariva in homepage). Un modo molto efficace e immediato per leggere, far leggere e far conoscere. Per il Decameron non c’era mai stato nulla di simile.

E – più vicino a noi – su Facebook si possono seguire, con un format essenziale ed efficace, giorno per giorno, le lezioni storiche proposte da Gianni Oliva.

E ancora – si parva licet – le letture e gli interventi musicali che periodicamente comparivano sul sito del nostro Istituto (la rubrica #Sopralerighe).

Conclusioni (provvisorie). Dunque, luci ed ombre, e se ogni valutazione non può prescindere dall’eccezionalità della situazione, anche in questo caso si può cogliervi l’occasione per una riflessione.

Era necessario ma non vediamo l’ora che tutto questo finisca. Questo vale anche e soprattutto per la scuola, che non può essere ridotta a una scuola virtuale. Gli insegnanti fanno sforzi notevoli, con gli allievi lontani, fanno più fatica, fanno lezione con Skype e altre piattaforme avanzate ma non è la stessa cosa che essere presenti. La storia umana e la nostra stessa conformazione psico-fisica implicano che la compresenza fisica (anche stando a un metro e ottanta l’uno dall’altro) sia molto diversa dal vedersi in uno schermo. Certo adesso dobbiamo assolutamente evitare rischi per la salute ma non dobbiamo pensare che diventi una normalità, questa è una eccezione innescata da un virus (Salvatore Settis, Manifesto per una ripartenza solidale, intervista a cura di Simona Maggiorelli, in “Left”, ed. web, 10 maggio 2020).