Le prime settimane di isolamento, dall’inizio dell’emergenza Covid 19, forse sono state le più pesanti. Credo per la inconscia paura che i movimenti dell’ ultima settimana di febbraio, magari limitati anche solo ad un caffè al banco in un locale, potesse portare a conseguenze nefaste.
Poi, con la chiusura decretata dal governo, è iniziata la vita ritirata, che non è coincisa con l’ otium, ma che mi ha fatto scoprire lati del mio carattere che non conoscevo, la capacità momentanea di poter rinunciare alla dimensione sociale, la scoperta di quella più intimistica.
Ho imparato a vivere la dimensione della casa come protettiva. Questa esperienza mi ha insegnato, inoltre, ad attribuire il senso vero alle cose e mi ha ricordato quale sia il valore autentico della vita.
Andando indietro con la memoria ai mesi di gennaio e di febbraio ed ancor prima agli ultimi mesi dello scorso anno, ricordo una società che si muoveva in modo frenetico, attribuendo, secondo me, un’attenzione troppo scarsa all’uomo, proiettata, invece, verso un’individualismo esasperato.
Ritengo che proprio questa esperienza di cosiddetta “quarantena” possa far soffrire di più chi sia individualista e per natura egocentrico, spesso alla ricerca di consensi esterni, in quanto dominato da insicurezze interiori.
In momenti drammatici, di emergenza come quelli che stiamo vivendo, in attesa di ripartire per la ricostruzione, come ha ben detto oggi il Pontefice durante la Messa di Pasqua, l’uomo non deve sentirsi solo, perché vicino a lui c’è Dio. Ma anche per chi non abbia fede, rimane una grande verità. Se si vuol ripartire e ricostruire, si devono abbattere gli individualismi del passato e creare reti di solidarietà, gettare ponti e non costruire barriere, metaforicamente parlando ( anche se fisicamente questo virus ci ha imposti, per la tutela della salute, ovviamente, di mantenere distanze di sicurezza).
Ci si vede impegnare a superare quel limite egoistico, che faceva affermare al noto sociologo Bauman che “la nostra è l’epoca del puro individualismo”.