Le guerre sono sempre state, come è ben noto, occasione di progresso per la chirurgia. Lo stesso trasformarsi delle armi e delle loro capacità lesive ha costituito, nel corso dei secoli, una continua sfida allo sforzo riparatore del chirurgo. A cavallo tra il XVIII e il XIX secolo si sono registrati notevolissimi impulsi in questo settore, in particolare nelle guerre napoleoniche, con i loro fulgidi esempi di organizzazione sanitaria d´armata francese, nelle soluzioni per il trasporto dei feriti e nell’allestimento di centri operativi. Figure di elevatissima statura professionale, come Jean Dominique Larrey, chirurgo capo delle armate, erano capaci di eseguire una disarticolazione d´anca in pochissimi minuti. La chirurgia sul campo di battaglia, largamente demolitiva, richiedeva velocità d´esecuzione e abilità nel tamponare emorragie e legare vasi che, a dispetto degli antiquati mezzi a disposizione, i chirurghi del tempo mostrarono di possedere. La guerra di Crimea, i moti del Risorgimento, le campagne per l´indipendenza d´Italia, la guerra di secessione americana, quella franco-prussiana e le imprese coloniali, con le loro tragiche conseguenze, furono gli altri teatri di ardimentose capacità ed occasioni per maturare nuovi orientamenti tecnici. Le armi da fuoco sempre più perfezionate, entrate in uso già prima del 1849, con canne rigate e proiettili ogivali, producendo effetti lesivi assai gravi, creavano nuovi e maggiori problemi ai chirurghi. Il desiderio di un indirizzo più conservativo, riguardo alle ferite degli arti, si contrapponeva sempre al timore delle frequentissime e letali cancrene.

            Le ormai dettagliate conoscenze anatomiche raggiunte nel secolo XIX, il metodo sperimentale in fisiologia e la patologia cellulare di Virchow permisero di realizzare il salto di qualità compiuto in campo chirurgico rispetto ai secoli precedenti. Ma furono in particolare due fattori a determinare il successo della disciplina in questo periodo:

  • l’introduzione dell’anestesia
  • la pratica dell’antisepsi

            Il miglioramento dello strumentario e l’ideazione di nuove procedure chirurgiche avevano contribuito, già nella seconda metà del XVIII secolo, a fare ulteriormente apprezzare il contributo della chirurgia. Tuttavia gli interventi rimanevano molto rischiosi, sia per l’alta incidenza di mortalità dovuta all’insorgenza di infezioni, sia per il dolore che il paziente era costretto a sopportare in assenza di qualsiasi tipo di anestesia. Le sofferenze che accompagnavano le operazioni erano ritenute un male inevitabile e l’unico rimedio a cui il chirurgo ricorreva era la velocità di esecuzione, che spesso però andava a scapito della precisione. Per quanto riguarda la lotta contro il dolore, già alla metà del XIX secolo, la scena della chirurgia era mutata profondamente e a fine Ottocento non restava quasi nulla delle scene drammatiche, cui il personale medico era costretto ad assistere. Ciò grazie anche all´introduzione di efficaci metodi contro il dolore. L´uso dell´oppio, della radice di mandragora, dell´alcool e delle manovre atte a ridurre il flusso ematico al cervello erano stati i tradizionali tentativi tesi a ridurre la sensibilità del paziente fin dall´antichità. Ma a inizio Ottocento i progressi della chimica e della fisica preparavano scoperte di grande vantaggio per il medico e il chirurgo.

Serie di bisturi, metà Ottocento

(per gentile concessione del Museo Internazionale CRI – Castiglione delle Stiviere MN

La chirurgia dell’epoca era funestata anche da un alto tasso di mortalità a causa delle infezioni che inevitabilmente seguivano il decorso postoperatorio, e che rendevano gli interventi chirurgici l’extrema ratio a cui ricorrere solo nei casi più gravi. Le infezioni peraltro erano maggiormente frequenti in ambiente ospedaliero rispetto a quello domiciliare, a causa della mancata osservazione delle più elementari regole di igiene. I chirurghi, che si limitavano ad una sommaria pulizia della ferita, operavano a mani nude, con strumenti e indumenti sporchi di materiale organico derivante da precedenti interventi, mentre ancora non era conosciuto alcun tipo di disinfettante efficace. Le ferite venivano lavate, non dico disinfettate, con acqua semplice, aceto o vino caldo, quindi si coprivano con bendaggi ricavati alla meglio. Vale a questo proposito citare la tragica vicenda del capitano di ventura Giovanni de’ Medici, passato alla storia come  Giovanni dalle Bande Nere, il Diavolo. Il giovane condottiero fu ferito durante uno scontro armato a Governolo, nei pressi di Mantova, il 25 novembre 1526, colpito da un proiettile di falconetto (cannone di piccolo calibro dell’epoca). Scrisse Francesco Guicciardini che il tiro gli “percosse e roppe una gamba alquanto sopra al ginocchio“, per cui dovette subire l’amputazione della gamba destra. Secondo le cronache dell’epoca, la decisione di Mastro Adamo, il chirurgo che eseguì l’intervento, “di lasciare del percosso tanto che il rimanente si putrefece“, fu un errore incredibile, la condanna a morte del de’ Medici, che morì quattro giorni dopo, a seguito di complicazioni causate dalla cancrena diffusasi dopo l’intervento.

Recenti studi, eseguiti di recente dalla divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, che ha analizzato i resti del condottiero dei Medici, dopo averli riesumati nella cripta del Museo delle Cappelle Medicee, hanno rivelato tuttavia nuovi particolari sulla sua morte, oltreché sul suo stile di vita. La conclusione è che il chirurgo, che lo operò quattro giorni dopo la battaglia, eseguì un ottimo intervento, pur non potendo far nulla per salvarlo: cercò di regolarizzare i monconi e pulire la ferita, ma l’infezione da cancrena era troppo avanzata e Giovanni morì per setticemia.

Pinze per estrazione pallottole

 Museo Internazionale CRI – Castiglione delle Stiviere MN

Solo intorno al 1860, grazie soprattutto agli studi del medico britannico Lord Joseph Lister, cominciarono le prime applicazioni di antisettici meno rudimentali, primo fra tutti il fenolo o acido fenico. Il contributo fondamentale alla lotta contro le infezioni ospedaliere fu dato dall’ungherese Ignaz Philipp Semmelweis, nonostante il valore delle sue scoperte sia stato riconosciuto soltanto dopo la morte. Semmelweiss studiò a Pest e a Vienna, dove iniziò a lavorare presso la clinica ostetrica. A quel tempo, come del resto in precedenza, le puerpere erano decimate da una patologia caratterizzata da malessere generale, dolore e febbre molto alta, nota come “febbre puerperale”. Sia nelle città che negli ospedali si registravano vere e proprie epidemie di questo morbo, sulle cui cause circolavano le teorie più disparate e fantasiose. Semmelweis osservò che le donne decedute per febbre puerperale presentavano sempre lo stesso quadro anatomo-patologico, caratterizzato da suppurazione dei genitali e del peritoneo. Si accorse inoltre che vi era una notevole differenza di decessi, fra i due reparti di ostetricia della struttura ospedaliera. Nel reparto frequentato dagli studenti di medicina che, prima di visitare le puerpere, effettuavano autopsie, la percentuale di donne decedute per febbre puerperale era notevolmente più alta, rispetto al reparto frequentato dalle allieve ostetriche. Semmelweis suppose che la febbre puerperale fosse causata da “particelle putride” di cadaveri od altri malati e poteva essere trasmessa attraverso le mani non lavate, la biancheria e i ferri chirurgici infetti.

Cassetta chirurgia da campo 1848

 Museo Internazionale CRI – Castiglione delle Stiviere MN

            Per verificare la fondatezza della sua ipotesi introdusse l’obbligo per i medici di lavarsi le mani con una soluzione di cloruro di calce, prima di visitare le puerpere. Questa semplice norma igienica, che fece registrare un drastico crollo dell’incidenza dei decessi, dimostrando la validità della sua teoria, venne tuttavia considerata offensiva nei confronti del personale medico e avversata dal suo primario, tanto che Semmelweis fu allontanato da Vienna e dovette trasferirsi a Budapest. In Italia, riguardo al trattamento antisettico delle ferite, i primi tentativi, risalenti al 1866, furono pubblicati da Enrico Bottini, chirurgo primario a Novara e poi professore a Pavia.

            Da quanto già esposto in precedenza, si evince che i numerosi decessi non sono imputabili esclusivamente al piombo dei proiettili, ma anche a malattie ed infezioni di vario genere, le cui responsabilità possono essere attribuite esclusivamente alla scarsa professionalità del corpo medico, sicuramente molto abile e all’altezza dei tempi, perfino di più di ciò che si sarebbe oggi portati a credere, ma purtroppo a corto di conoscenze cliniche e tecniche chirurgiche adeguate, oltreché idonei strumenti professionali, principalmente riguardo all’asepsi e all’assenza totale di anestetici. Basti pensare che uno stetoscopio, strumento inventato in Francia nel 1816, poteva essere considerato una rarità, così come i termometri clinici, non certo frequenti all’epoca ed in tali circostanze. La conseguenza era che malattie quali tifo, tetano, setticemia e cancrena, dovute ad assenza di igiene e al proliferare di germi patogeni nelle ferite, risultavano piuttosto frequenti, ma come se non bastasse ad esse andavano ad aggiungersi quei gravi malanni tipici della prolungata esposizione al clima ostile, all’umidità e alle intemperie, quali bronchiti e polmoniti. E’ il caso di far presente che al termine di uno scontro, nel quale era stata presente la cavalleria, proprio il tetano risultava una delle principali cause di morte, ciò a causa dell’alta presenza sul terreno di spore della terribile malattia, considerando anche l’assenza della vaccinazione. E’ risaputo che le feci di cavallo risultano notoriamente molto ricche di spore e le ferite esposte e contaminate su tali terreni, aprono le porte a tale temibilissima infezione, quasi sempre mortale.

Come già riportato in precedenza, nello studio statistico di malattie e decessi causati dalle ferite riportate in combattimento, bisogna anzitutto tener presente che concetti quali igiene personale, cura della persona e sanità pubblica, erano in quel periodo del tutto sconosciuti alla maggioranza. Nel XIX secolo, le già malsane condizioni di vita delle persone, le quali generalmente tendevano a lavarsi poco o niente, ed ancor meno solevano cambiarsi d’abito e biancheria, aggravate inoltre dalla costrizione della vita in comune che i soldati si trovano costretti a vivere, dall’assenza totale di servizi igienici e dall’assunzione di cibo scarso, inadeguato e perfino di acqua infetta, facilitavano moltissimo il proliferare di germi patogeni, causa di gravi infezioni. Come se non bastasse, le barbe incolte, i capelli lunghi, favoriscono l’insorgere di parassiti, che come sappiamo tendono a trasmettersi fra individui.

Riguardo all’igiene, è il caso di citare la testimonianza di Narciso Bronzetti, ufficiale dei Bersaglieri lombardi che combatté per la difesa di Roma assieme al fratello Pilade, il quale scrisse:

Il I battaglione Bersaglieri finora non aveva mai avuto un’ora di riposo, nemmeno per poterci cambiare di biancheria, la quale dal lungo portarla – confessava il neo capitano trentino – attorno era nera come la pelle de’ stivali, oltre all’essere piena d’immondizie che pel gran sudore e polvere, dovendo dormire sempre (se dormire può chiamarsi l’assopimento della fatica) per terra e a ciel sereno.

Finalmente ci concedono mezza giornata di riposo. Scendiamo dalle mura e ci rechiamo in Trastevere nel palazzo Corsini, posati i fucili si dà ai soldati 4 ore di libertà coll’obbligo di doversi trovare tutti riuniti pel mezzodì Io e Pilade ce ne andiamo a casa a cambiarci, indi si va a mangiar una minestra, perché … fino allora non si era vissuti che di pane, vino e patate che facevano cucinare i soldati; ...”.

La presenza di miasmi causati dai cadaveri insepolti, esposti al caldo torrido della stagione, di sciami di mosche e zanzare, potevano essere considerati un vero flagello, in quanto potenziali veicoli di propagazione delle infezioni. I chirurghi erano abilissimi con il bisturi, ma la quasi totale assenza di misure riguardo alla sterilizzazione degli strumenti chirurgici, i quali in condizioni di emergenza venivano semplicemente risciacquati, tra un’operazione e l’altra nella stessa acqua sporca di sangue delle operazioni precedenti, la dice lunga sull’assenza totale o quasi del concetto di asepsi.

Le amputazioni erano frequenti. Le ferite lacero-contuse, provocate dai pesanti proiettili in piombo, sparati dai fucili in dotazione agli eserciti in quel periodo, risultavano orribili negli effetti e perfino allo sguardo. Le ossa colpite tendevano letteralmente a sbriciolarsi, con effetti catastrofici sulla persona colpita. L’uso continuo della sega per amputazioni, per quanto assurdo possa apparire oggi, era considerato l’unico mezzo per salvare la vita al povero soldato ferito.

Sega per amputazioni

Museo Internazionale CRI – Castiglione delle Stiviere MN

Medici ed infermieri sapevano che le ferite tendevano normalmente a suppurare, risultando inverosimile una guarigione in assenza di complicazioni. L’impiego delle larve e delle sanguisughe, allo scopo di ripulire le ferite, ben noto agli antichi romani, sembrava caduto in disuso, in quanto considerato ulteriore veicolo di infezioni, pur trovando il consenso di alcuni chirurghi, perfino in tempi recenti. Storicamente, le larve venivano utilizzate per il loro contributo alla rapida guarigione delle ferite, rimuovendo il tessuto necrotico della ferita, del quale si nutrono. Molti chirurghi militari hanno notato che ferite dei soldati trattate con la terapia larvale miglioravano, registrando un tasso molto più basso di mortalità rispetto a ferite trattate in altro modo. Durante la spaventosa Guerra di Secessione Americana, che sarebbe scoppiata di lì a dodici anni, resta accertato che alcuni chirurghi, a corto di mezzi necessari nel corso di un intervento, ne fecero uso, non si sa con quale esito. Anche la cauterizzazione delle ferite, pur terribile e cruenta, è stata fin dall’antichità uno dei mezzi più importanti per intervenire nei casi di emorragia, di amputazioni e di infezioni gravi, praticata generalmente con ferri sagomati resi incandescenti o con olio bollente.  

La terribile palla Minié, usata nella Guerra di Secessione americana, responsabile di ben 700.000 morti (Old South Firearms)

Le strutture ospedaliere romane, per citare un esempio, in quel periodo si trovavano in condizioni pessime, pesante eredità lasciata dal governo pontificio. La cancrena nosocomiale, come dichiarò in Assemblea il deputato Coccanari il 18 marzo 1849, “miete orribilmente le vite di molti infelici e solo per noncuranza di cautele igieniche, per poco o niuna nettezza e per inettitudine di chi presiede“.

Pochi giorni prima il Direttore della Sanità, il medico Carlo Farini, dopo una visita all’Ospedale S. Spirito aveva denunciato analoghe e più gravi carenze, quali sovrabbondanza di malati, mancanza di pulizia, indisciplina del corpo medico.

In questo triste panorama, con i Francesi alle porte, il Triumvirato istituì il Comitato delle Ambulanze civili e militari, affidandone la direzione alla  Principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso, già conosciuta da Mazzini, assistita da Giulia Bovio Paolucci de Calboli, Giulia Calame Modena, Enrichetta di Lorenzo Pisacane, dalla giornalista americana Margaret Fuller Ossoli e dal Padre barnabita bolognese Alessandro Gavazzi, con il compito di assistere i feriti e i malati ricoverati negli ospedali. Donna definita di rara bellezza, cultura superiore, alta spiritualità, la lombarda Cristina, giunta a Roma da Parigi nella primavera del ’49, si mise subito all’opera, bandendo una crociata volontaria fra le donne romane, sull’onda dell’entusiasmo della battaglia del 30 aprile, dalla quale uscirono circa 300 donne che entrarono nell’organizzazione. La direzione centrale dell’organizzazione, detta Ambulanza centrale, era situata, per volere della Belgioioso, presso l’Ospedale Militare della Trinità dei Pellegrini, già Ospizio dei Pellegrini, fondato nel 1548 da S. Filippo Neri. Gli altri ospedali erano:

–  S. Pietro in Montorio, direttrice Enrichetta Pisacane;

–  S. Spirito, direttrice Giulia Modena;

–  Fatebenefratelli (Isola Tiberina), direttrice Margaret Fuller;

–  S. Teresa di Porta Pia, direttrice Enrichetta Filopanti.

–  S. Giacomo, sotto la guida di Malvina Costabili;

–  S. Giovanni, sotto la guida di Paolina Lupi;

–  S. Gallicano, direttrice Adele Baroffo;

–  S. Urbano, direttrice Olimpia Razzani.

C’è da dire che fra le centinaia di donne scelte ad entrare a far parte dell’organizzazione, ne risultò anche qualcuna dal passato non proprio ricco di virtù, pecca che contribuì a scatenare una ingiusta campagna denigratoria da parte di reazionari e religiosi, scandalizzati alla vista di volenterose assistenti che, nel caldo torrido di quel giugno, svolgevano i loro compiti perfino con le braccia scoperte. La risposta di Pio IX, condita di epiteti e volgarità, sarebbe arrivata nel dicembre 1849, una volta riconquistato lo scranno a seguito della caduta della Repubblica, parlando di:

miseri infermi già presso a morire, sprovveduti di ogni conforto della Religione … costretti ad esalare lo spirito fra le lusinghe di sfacciata meretrice“.

La risposta di Cristina di Belgioioso non si fece attendere. Così scrisse:

” … Non sosterrò che tra la moltitudine di donne che, durante il maggio e il giugno 1849, si dedicarono alla cura dei feriti non ve ne fosse neppure una di costumi reprensibili: Vostra Santità si degnerà sicuramente di considerare che non disponevo della Polizia Sacerdotale per indagare nei segreti delle loro famiglie, o meglio ancora dei loro cuori. Mi accadde., l’ammetto, di venire informata che l’una o l’altra delle aiutanti dell’ospedale fosse nota per avere esercitato in precedenza una professione disonesta. Se quell’avvertimento mi fosse arrivato prima, indubbiamente le avrei escluse, ma tale non era il caso. Le donne che mi venivano denunciate erano state per giorni e giorni a vigilare al capezzale dei feriti; non si ritraevano dinanzi alle fatiche più estenuanti, né agli spettacoli o alle funzioni più ripugnanti, né dinnanzi al pericolo, dato che gli ospedali erano bersaglio delle bombe francesi. Nessuno poteva rimproverare a queste donne una parola o un gesto meno che decoroso e casto. Ciò nonostante forse avrei potuto ugualmente espellerle, se non avessi io adorato quel precetto di quel Dio che, in sembianza umana, non disdegnò che una donna di perversi costumi gli ungesse i piedi e glieli asciugasse con le sue lunghe trecce “.

Una figura a dir poco meschina, per un Papa calunniatore che il 3 settembre 2000 è stato proclamato “beato”!

BIBLIOGRAFIA

Adducci Giovanni                 Un Garibaldino a Casa Giacometti              Palombi Editori 2015

Armocida G.- R. Dionigi         Cenni di storia della chirurgia– Cap. 1        web

Autori vari                        www.paleopatologia.it/                                  web

UNIPINEWS                        Così morì Giovanni dalle Bande Nere

Vannucci Marcello                 Giovanni delle Bande Nere                            Il Giornale Bibl.St. 

Von Clausewitz Karl             L’Arte della Guerra                                       Oscar Mondadori

Periodici e quotidiani

Anno III n. 19 Gennaio 1990                        Gli ospedali di Roma                         di Claudia Terracina

Grazie al Dott. Massimo Capone, per il suo prezioso contributo sulla storia della chirurgia militare.