Tempi duri per l’Unione Europea. Non ha mai scaldato il cuore a (quasi) nessuno ed è sempre più a rischio di irrilevanza (le due cose vanno insieme, e non è casuale). Se vuole sopravvivere, una condizione necessaria – anche se non sufficiente – è cominciare a guardare la realtà, piuttosto che i simulacri mostrati nei talk-show. Un buon inizio è quello di smascherare i miti fasulli, tra i quali, il posto d’onore spetta al celebrato “Manifesto di Ventotene”. Diamogli un’occhiata da vicino?
Nella sua versione originale che risale al Giugno 1941 (con revisione in Agosto, che ho utilizzato), firmata Spinelli, Rossi e Colorni, è diviso in quattro capitoli dei quali il primo ha funzione di introduzione. Chi ne intraprende la lettura incontra subito un’ambiguità. Certi passi sono ispirati alla situazione italiana. Vedi ad esempio “le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri coi quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche”. Qui c’è una trasparente polemica italiana col fascismo e la sua politica di incremento demografico. Poi però, nel quadro di un’analisi della situazione dell’Europa di quel tempo, il leit motif è la denuncia di una presunta vocazione totalitaria degli stati nazionali della vecchia Europa, ma quali stati? “Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere”. La nascita della vocazione totalitaria è attribuita agli stati nazionali, ma non si dice dove era questo eden democratico che precedette la nascita degli stati nazionali. Nella Germania dei Principi Protestanti? Nel Piemonte di Vittorio Amedeo? Nell’Italia papal-borbonica? Non importa: come si vede più avanti, ciò che interessa agli estensori è la rivoluzione assai più che la democrazia
L’arcaico messaggio prosegue: “la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi”. Ma dove? In Italia i militari non hanno mai avuto un ruolo politico, e nel 1940 erano contrari all’ingresso in guerra sapendosi impreparati. Hitler era di estrazione piccolo borghese e come militare non andò mai oltre il grado di sottufficiale. Nei paesi anglosassoni i ceti militari non hanno mai avuto un peso politico, in Unione Sovietica tutto il potere era nelle mani del Soviet Supremo, e i militari, se non rigavano dritto, finivano fucilati come Tukhachevsky. Spinelli forse pensava alla Spagna, dove però dubito che il supercattolico Franco e la Falange potessero essere visti come “ceto militare”.
“Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all’uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di conquistare l’uguaglianza di fatto, ecc.” Da questo passo in poi il contenuto del capitolo I è una lettura marxistico leninistica della storia recente. Sentiamo: “La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell’interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse”. La storia falsificata, ma dove? A Parigi? A Amsterdam?
Il linguaggio è quello tipico dei nostri “Centri Sociali” e di ciò che oggi chiamiamo “ultrasinistra”, e invero, molti concetti richiamano Babeuf e la “Congiura degli Eguali”, oppure anche Bakunin, piuttosto che un’ortodossia leninistica. C’è un abile mix nel quale alla condanna dei totalitarismi si associa quella di tutta l’Europa capitalista. Nel 1941 Spinelli, anche se era al confino, doveva sapere quello che in Unione Sovietica succedeva da una ventina di anni, quello che era successo nei terribili anni 1936-37. E però, tra i totalitarismi del “secolo breve” quello sovietico non è menzionato se non di sfuggita: dell’Unione Sovietica si ricorda principalmente la strenua resistenza opposta ai Tedeschi; si aggiunge una blanda censura del principio dell’abolizione della proprietà privata, e il riconoscimento che in Russia ha prodotto l’asservimento della popolazione “alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”; “tirannide burocratica” è definizione un po’ riduttiva per la tirannide staliniana, della quale la “burocratizzazione” non è stata il crimine peggiore. E’ su questa arcaica base concettuale che Spinelli voleva fondare l’Europa Unita? Sentiamo.
Un’asserzione senza sfumature: se dopo la sconfitta del Nazismo sopravvivessero gli stati nazionali, i reazionari avrebbero vinto. “Fossero pure questi Stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani di reazionari sarebbe solo questione di tempo”. Qui il lessico è ortodossamente leninistico, e manca solo la condanna del socialtraditore Kautsky. Il peggio, comunque, è ciò che segue, la pars construens dedicata alla nuova Europa vaticinata. Il presupposto è “la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani”. Dopo l’oppressione hitleriana, tutti i popoli europei entreranno “in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali”. Col che, non manca nemmeno il tocco di troskismo che si fa più forte nelle pagine seguenti: non così strano, se è vero che proprio con l’accusa di troskismo Spinelli fu espulso dal PCI nei tardi anni 30 (per ricomparirvi dopo la guerra come “indipendente”).
L’Europa federale dovrebbe disporre “di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali” ed avere “gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune” (frase da brivido). Il Manifesto non si sofferma sul ruolo e la posizione delle nazioni che non aderiscano al nuovo ordine.
Il quale “è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto”. Questa asserzione (in particolare la parola “arresto”) dà l’idea di una visione nella quale la Storia è storia di un progresso civile arrestato dall’era totalitaria e cioè dal Nazismo (unico totalitarismo identificato dal Manifesto). Ma che cosa è la “civiltà moderna e quando nacque? Erano “totalitari” Mosè? Il Faraone? Giustiniano? Luigi XVI? Quando nacque la “civiltà moderna”? Non certo con l’Illuminismo (condannato da Marx e Lenin); tanto meno con i regimi borghesi dell’800 (anatema sit)? Difficile rispondere in un’ottica comunista.
Alcuni punti considerati essenziali per il rinnovamento della società sono discussi in dettaglio. Esempio, quello delle nazionalizzazioni, che dovrebbero colpire le grandi entità industriali e finanziarie, per loro natura in grado di raggiungere posizioni monopolistiche e/o di tenere i governi sotto ricatto. Vengono citati imprese elettriche, siderurgiche, minerarie e degli armamenti, e grandi banche: “E’ questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti”. Vengono proposte varie altre riforme di tipo egualitaristico, riguardanti diritto di proprietà, educazione di massa, solidarietà (non caritativa) verso i poveri, rappresentanza sindacale. Un esempio: “Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl’istrumenti dei quali abbisognano, ecc.”. Se si confronta col “Manifesto degli Eguali” di Sylvain Maréchal (1797), certi passi sono interscambiabili, a parte le differenze lessicali. E però, non mancano autorevoli commentatori che si chiedono: chissà come mai qualcuno dice che Spinelli era comunista!
Avvicinandosi alla conclusione, il “Manifesto” assume toni profetici. La caduta dei regimi totalitari comporterà “il trionfo delle tendenze democratiche”, tendenze che deride per la loro ingenuità. “I democratici sono dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui il popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che devono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie
[quali quella della nascita dell’Europa federale, n.d.r.]
, in cui le istituzioni non devono già essere amministrate, ma create,la prassi democratica fallisce miseramente . [I democratici] si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare”. Singolare esaltazione del capo carismatico.
La dittatura del proletariato è idea un po’ datata – si riconosce – ed anzi è utilizzata dalle forze della reazione per dividere le classi lavoratrici. Il Manifesto formula anche una critica ai comunisti, che si sono fatti strumentalizzare dai russi, e dei quali non si auspica l’avvento al potere (non dimentichiamo che Spinelli era stato espulso dal PCI). Si sollecita, infatti, la nascita di un partito rivoluzionario che raccolga tutti gli oppressi, e tuttavia recluti nella sua organizzazione “solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita” e che operino “anche nella situazione di più dura illegalità”. Sembra tratteggiare una setta alla Filippo Buonarroti, piuttosto che un partito.
Il Manifesto auspica un’Europa federale, quando oggi si stenta a mettere in piedi una confederazione. Non chiarisce perché non fare un passo avanti, e non privilegiare una prospettiva mondialistica. La ratio di una unificazione dell’Europa non emerge perché, non può emergere, quando i più importanti elementi costitutivi dell’identità europea sono contestati come borghesi in un’ottica marxista. Ci tornerò in chiusura.
Conclusione
La debolezza principale di quel modesto documento è quella che abbiamo appena citato: non spiega affatto quale sia il legame che tiene (terrebbe) insieme gli stati europei e che deve (dovrebbe) indurli a federarsi. Secondo uno slogan vastamente accettato, il legame è costituito dalle “comuni radici cristiano-illuministiche”, e questo è già di per sé un ossimoro (diverso sarebbe dire che nelle nostre radici storiche della nostra civiltà ci stanno sia il Cristianesimo che l’Illuminismo). Ma lo slogan non funzione affatto per lo Spinelli 1941 – visto che il comunismo, in nome del materialismo storico, ha sempre vigorosamente contestato la Religione, e altrettanto l’Illuminismo! Tolte quelle radici comuni, che cosa altro giustifica un legame privilegiato? Incidentalmente esistono altre entità – extra-europee- che non sono né meno cristiane né meno illuministiche: un vistoso esempio, gli USA .
Fortunatamente l’Unione Europea nacque con un indirizzo che era agli antipodi del Manifesto di Ventotene. Non per niente la nascita fu avversata dalla sinistra comunista. Le sue regole sono tutte un inno alla Libera Concorrenza ed una censura degli interventi statali sul mercato. I confini nazionali non sono stati abbattuti. Tanto meno le identità nazionali che hanno impedito all’Unione di progredire oltre un certo limite sulla strada dell’unificazione. Ne testimoniano la dimostrata impossibilità di costruire una politica estera unitaria e una comune forza militare. Ovviamente, non sono venute meno certa pulsioni egemoniche né certe contrapposizioni storiche. Non potevano venir meno, perché sono scritte nel genoma, non nelle carte.
Quali siano i contributi dei singoli autori non è noto a chi scrive. Generalmente il pensiero va soprattutto a Altiero Spinelli il quale aveva all’epoca un background ideologico che rende plausibile l’opzione. Si fatica a capire quale sia stato il ruolo di Ernesto Rossi, che comunista non fu mai.
Complessivamente, la (brutta) utopia del Manifesto non si è realizzata. Qualche suo aroma lo ritroviamo in certe posizioni ultraeuropeistiche, che però la “gente” non vuole. E “la gente” è quella che conta, infine….
Rosalino Sacchi
2017
Anno III prima del Coronavirus