Nel 1865 Firenze divenne la capitale del Regno d’Italia, proclamato a Torino quattro anni prima. Per la città del giglio fu una svolta epocale, non solo perché i lavori di riqualificazione della città affidati all’architetto Giuseppe Poggi cambiarono radicalmente l’aspetto del centro storico, quasi immutato dai tempi dei Medici, ma anche per il sorgere dei nuovi quartieri periferici e soprattutto per l’abbattimento delle mura arnolfiane in essere da mezzo millennio. Al loro posto vennero realizzati i Viali di Circonvallazione inglobando anche la collina di San Miniato, dove fu edificato lo splendido Piazzale Michelangelo. Una rivoluzione urbanistica cui fece seguito anche una piccola rivoluzione sociale; infatti con il trasferimento della capitale arrivò a Firenze anche tutta una classe di funzionari e impiegati torinesi che dovettero seguire il trasferimento dei ministeri. E qui, per forza di cose, si incontrarono “due mondi” sociali, ma anche gastronomici molto diversi. Tanto diversi che si ritenne opportuno pubblicare, a cura della Tipografia Letteraria di Torino, un guida pratica popolare di firenze “ad uso specialmente degli impiegati, negozianti, delle madri di famiglia e di tutti coloro i quali stanno per trasferirvisi“. Un opuscoletto nel quale non solo si racconta di Firenze, ma si racconta anche del carattere, degli usi e costumi dei fiorentini.

E qui è necessario fare un paragone tra le due tradizioni di vita: Firenze, sino a cinque anni prima sotto i Lorena, Granduchi di Toscana, Torino da sempre guidata dalla dinastia dei Savoia. Ma anche due modi di intendere la vita e il cibo: semplice se non povero quello fiorentino (brodo di trippa per le classi umili!), più ricco e opulento quello torinese. Si pensi alla fettunta, fetta di pane sciapo abbrustolita e condita con olio e sale, e alla bagna cauda che certo non necessita di spiegazioni. Oppure i semplici crostini neri, cioè di fegatini di pollo, posti a confronto con crostini al tartufo di Alba. Per non parlare delle carni; recita il nostro manuale: “Frequentatissime sono le botteghe dei macellai, le quali se non sfoggiano il lusso di quelle di Torino, sono tuttavia decenti“. Solo decenti! E questo la dice lunga sulla maggiore o minore “ricchezza” di una città. Ma in effetti se si pensa al nostro lesso, carne da brodo che una volta cotta è dura e filacciosa, e al bollito misto alla piemontese, beh, non possiamo certo biasimarli.

Ma vediamoli meglio questi due modi di cuocere la carne.

In Toscana c’era, e in parte c’è ancora, l’abitudine di fare un buon brodo di carne da tenere pronto per cuocere la pasta “piccola” (capellini d’angelo, stelline, ecc), ma anche i tortellini “importati” dall’Emilia. Per avere un buon brodo era necessario far bollire la carne a lungo usando tagli di seconda scelta, quelli più duri e meno appetitosi, cui si aggiungeva “l’osso per il brodo” spugnoso e con un po’ di cartilagine intorno. La carne messa in acqua fredda insieme a cipolla, carota, sedano, sale e qualche grano di pepe veniva fatta bollire non meno di un’ora in modo da rilasciare tutti i succhi. Raffreddato e filtrato ecco il brodo pronto all’uso. E la carne? Spesso finiva in tavola tal quale con l’aggiunta di qualche “corredino” (sottaceto o sottolio) per ingentilire un piatto assai ostico dopo quella cottura così intensa.  Una valida alternativa era il “lesso rifatto”, più gradevole e appetitoso perché i pezzi del manzo venivano tagliati a fettine e ripassati in padella con cipolle e pomodoro che andavano a reidratare la carne. Un modo semplice e abbastanza piacevole per riciclare ciò che era stato “spremuto” per altri usi.

Il “gran bollito” alla piemontese è un piatto conviviale e sontuoso legato ad un numero magico: il sette. Il piatto originario comprendeva infatti sette tagli di carne, sette ammenicoli, sette salse e sette contorni, una magia per gli occhi e per il palato. Oggi viene proposto generalmente in forma ridotta: scaramella, testina, muscolo, lingua, cappone (a Natale), cotechino, accompagnati dalle salse più tradizionali: bagnetto rosso e verde, mostarda di frutta (cognà), salsa al rafano e al miele e noci (salsa d’avije). La carne di bue è la più indicata per il gran bollito, che trova la sua glorificazione nel mese di dicembre quando si celebra la Fiera Nazionale del Bue Grasso a Carrù (CN) e a Moncalvo (AT) che vantano un’antica tradizione di allevamenti di questo bovino e dove in tale occasione viene offerta a volontà la degustazione del ricco piatto.

E un capitolo a parte merita l’olio. Si legge ancora sul manuale: “La Toscana è il paese dell’olio, quanto lo possono essere le due riviere della Liguria”, e ancora “In Toscana non pochi usano l’olio in luogo del burro non solo per friggere”.

Il fritto è un antico modo ci cuocere i cibi, sia carni che verdure, con metodi cottura che variavano da regione a regione. Come ci racconta Pellegrino Artusi in Lombardia si usa il burro, in Emilia-Romagna lo strutto, in Toscana l’olio. E tradizione voleva che si friggesse in grandi padelloni con un lungo manico, per evitare gli schizzi d’olio. Si friggeva di tutto, perché tutto se fritto è buono. Carni di manzo a fettine, pollo, coniglio, agnello, verdure di stagione, tutte, dalle cipolle alle zucchine, e ovviamente in tempi più recenti anche le patate. Carni passate nell’uovo, verdure nella pastella, e soprattutto tolto dalla padella il fritto veniva messo su carta gialla per far assorbire l’unto in eccesso. Per ovviare a eventuali carenze di carne si friggeva anche il pane, fette passate nell’uovo come fosse vitella e poi fritte!

Il fritto misto piemontese ha antiche origini contadine ed è strettamente legato al rito della macellazione del maiale di cui, per tradizione, non si butta via nulla. Il fritto, nato come pietanza di recupero, diventa a partire dall’800 un piatto sontuoso e ricco dei giorni delle feste, che unisce pezzi dolci e salati, impanati e fritti, servito una volta tra gli antipasti, oggi proposto come piatto unico. Tra i tanti componenti che lo connotano (salsiccia, fettine di coscia, verdure, ecc.), spiccano i semolini dolci e gli amaretti. Immancabili le carote ed il fegato saltati nel burro. 

E infine il carattere, ancora dal manuale: “Il fiorentino è per natura mite, cortese ed ospitale; … in compenso nessuno è più parco del fiorentino … A questi pregi o difetti il fiorentino ne aggiunge un altro … ed è la fierezza per la sua storia, pel suo primato artistico e per la sua lingua. Su questi tre punti non è disposto a cedere, né a transigere con chicchessia “.

Il torinese per contro è riservato, prudente e riflessivo. Un appellativo, una volta comune, affibbiato ai torinesi e più in generale ai piemontesi era quello di “bogianen”, interpretato spesso dai foresti nel senso di restio ai cambiamenti e portato invece con orgoglio dai locali come sinonimo di tenacia e risolutezza, che trae origine dal soprannome dato ai soldati piemontesi che nel 1747 non arretrarono e respinsero le preponderanti forze francesi nella battaglia dell’Assietta (TO) durante la guerra di successione austriaca.

Torino visse molto male il “trasloco” a Firenze. Come noto, vi furono sommosse represse violentemente. Malgrado le tensioni il Re decise di non sopprimere i festeggiamenti del Carnevale 1864. Le carrozze reali in corte vennero accolte con lanci di uova e Vittorio Emanuele lascerà la città il giorno successivo senza congedarsi ufficialmente.

E ci si mise anche la fonduta a creare qualche screzio. Già oggetto di dibattiti sulla sua paternità, valdostana o, come sostengono i sabaudi, piemontese, viene orgogliosamente difesa come uno dei baluardi gastronomici da Collino Pansa, che nel libro “Il mio Piemonte” scrive: “Voi toscani avete l’Aleatico e il Chianti per il buon bere….ma della fonduta lasciate parlare noi“. Sul quale piatto interverrà polemico il toscano d’adozione Artusi, commentando che “di questo piatto fo poco conto…ripiego quando manca di meglio.

Insieme alla Corte si muove una quantità di impiegati e burocrati ministeriali per i quali il trasferimento rappresenta una buona occasione per fare carriera: occorre quindi che sappiamo muoversi in modo adeguato alle nuove responsabilità anche per quanto riguarda il galateo e le abitudini conviviali. A questa nuova classe si rivolge il “Cuoco pratico ed economo” del 1865, un vademecum mirato a istruire i meno esperti, o i più giovani, su come imbandire una tavola e come a disporre gli invitati, sulla composizione del menu a seconda del numero di commensali e della loro importanza. Chiude il volume un ricettario che comprende il meglio delle cucine italiane ed estere, con un occhio quindi ad una sorta di internazionalità gastronomica.

Durante il periodo di Firenze capitale la Corte non brillò per particolare vivacità, anche perché il Re preferiva soggiornare nella tenuta di San Rossore. Quando era in città alloggiava a Palazzo Pitti, dove vigeva l’etichetta sabauda. Il 1° gennaio 1866 la Corte festeggia il primo Capodanno a Firenze con un pranzo che rispecchia la consuetudine. Il menu rigorosamente in francese rispetta l’etichetta nella suddivisione tra potages d’apertura, hors d’oeuvre, rotis, entremets e glaces.  I vini sono quasi tutti francesi, con uno champagne a concludere.

Poche settimane prima però Bettino Ricasoli, ricevendo Vittorio Emanuele II appena giunto a Firenze nel castello del Brolio, gli aveva fatto servire la panzanella, umile preparazione contadina formata da una fetta di pane sciapo condita con pomodoro, olio, basilico, poco aceto, cipolla e olio d’oliva, che il Re, amante dei sapori decisi, aveva oltremodo apprezzato, così come il vino Chianti che da lì trovò posto nei pranzi ufficiali.  

Il rapporto tra toscani e piemontesi non fu dunque facilissimo, entrambi orgogliosi delle proprie tradizioni, ma per necessità costretti anche ad “assaggiarsi” e, come insegna la storia, a finire per apprezzarsi reciprocamente, almeno sotto l’aspetto gastronomico.