Trattando di “archetipo” junghiano e “senso comune” vichiano a confronto, rintracciavo spunti per la ripresa della nota affermazione di Karl Popper secondo cui la “psicoanalisi non è una scienza”, perché non è “falsificabile”, o non ammetterebbe “confutazioni”. Tali spunti erano, e sono, forniti, dalle risposte via via fornite nel tempo da Carl Gustav Jung, per chiarire il concetto di “archetipo”, risposte evidentemente tese in partenza a inibire ogni affermazione e pretesa confutatoria. Ma la questione, cui sono ora sollecitato a rispondere, si rivela ben più ampia e complessa. E richiede il riesame non solo della tesi popperiana, ma anche delle posizioni di Freud e Adler, delle differenze nel merito e nel metodo rispetto a Jung, delle riprese di Grunbaum e Antiseri, infine del tentativo di risoluzione del problema nell’ ambito delle tendenze attuali della psicoanalisi e psicoterapia. In breve, la mia tesi è che la psicoanalisi, vista in quanto psicoterapia, cioè dottrina in atto, non è “scienza” come tale, bensì come “storia”, caso particolare della “storia contemporanea”, “vissuta in base ad un problema” esistenziale ( Croce 1893-1917-1938 ).
Popper e Grunbaum.
Non tutti i filosofi citati riconoscono tutti gli altri che entrano nel taglio della “interpretazione”. Ad es., Popper non cita mai Jung; Jung, mai esplicitamente Popper, anche se fa le viste di replicare alla critica popperiana, nella propria risposta a Martin Buber. Grunbaum o Antiseri non si intrattengono più di tanto su Jung. Croce si riferisce alle dottrine del sogno in Freud, solo alludendo a Jung, e così via. Ma è bene ripartire dalla critica popperiana introdotta in Logica della scoperta scientifica e in Congetture e confutazioni.”Se vogliamo evitare l’errore positivistico, consistente nell’eliminare per mezzo del nostro criterio di demarcazione i sistemi di teorie delle scienze della natura, dobbiamo scegliere un criterio che ci consenta di ammettere, nel dominio della scienza empirica, anche asserzioni che non possono essere verificate.(..) Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema”
( Logica della scoperta scientifica, ed. it., 1978 ). “ Riscontrai che i miei amici, ammiratori di Marx, Freud e Adler, erano colpiti da alcuni elementi comuni a queste teorie e soprattutto dal loro apparente potere esplicativo. Esse sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano.. L’elemento più caratteristico di questa situazione mi parve il flusso incessante delle conferme delle osservazioni, che ‘verificavano’ le teorie in questione; e proprio questo punto veniva costantemente sottolineato dai loro seguaci.(..) Gli analisti freudiani sottolineavano che le loro teorie erano costantemente verificate dalle loro ‘osservazioni cliniche’. Quanto ad Adler, restai molto colpito da un’esperienza personale. Una volta, nel 1919, gli riferii di un caso che non mi sembrava particolarmente adleriano, ma che egli non trovò difficoltà ad analizzare nei termini della sua teoria dei sentimenti di inferiorità, pur non avendo nemmeno visto il bambino. Un po’ sconcertato, gli chiesi come poteva essere così sicuro. ‘A causa della mia esperienza di mille casi simili’, egli rispose; al che non potei trattenermi dal commentare: ‘E con questo ultimo suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi’. (..) Posso illustrare questa circostanza per mezzo di due esempi assai differenti di comportamento umano: quello di un uomo che spinge un bambino nell’acqua con l’intenzione di affogarlo; e quello di un uomo che sacrifica la propria vita nel tentativo di salvare il bambino. Ciascuno di questi casi può essere spiegato con la stessa facilità in termini freudiani e in termini adleriani. Per Freud, il primo uomo soffriva di una repressione, per es., di una qualche componente del suo complesso di Edipo, mentre il secondo uomo aveva raggiunto la sublimazione. Per Adler, il primo soffriva di sentimenti di inferiorità determinanti forse il bisogno di provare a se stessi che egli osava compiere un simile delitto, e lo stesso accadeva al secondo uomo, che aveva bisogno di provare a se stesso di avere il coraggio di salvare il bambino. Non riuscivo a concepire alcun comportamento umano che non potesse interpretarsi nei termini dell’una o dell’altra teoria. Era precisamente questo fatto – il fatto che dette teorie erano sempre adeguate e risultavano sempre confermate – ciò che agli occhi dei sostenitori costituiva l’argomento più valido a loro favore. Cominciai a intravedere che questa loro apparente forza era in realtà il loro elemento di debolezza ” ( Congetture e confutazioni, ed. it, Bologna 1976 ).
A questa critica popperiana Adolf Grunbaum oppone: “Nessuna teoria falsa è più vicina alla verità di qualsiasi altra teoria falsa”. “Popper sbaglia quando sostiene che una teoria T2 ( es. quella di Einstein ) è migliore di una teoria T1 ( la newtoniana )”, perché Einstein avrebbe una risposta altrettanto esatta per ogni domanda che la teoria di Newton non può soddisfare, oltre a dare risposte cui la stessa precedente teoria non perviene. Qui Grunbaum fa l’esempio del “perché l’orbita di un pianeta di massa trascurabile, soggetta esclusivamente al campo gravitazionale solare, è un’ellisse perfettamente chiusa intorno al sole” ( domanda cui Newton può rispondere, mentre l’ Einstein la dichiarerebbe infondata o non interessante dal suo nuovo punto di vista ).
In generale, Popper rispose: “Il mio criterio di demarcazione è abbastanza affilato da consentire di operare una distinzione fra le molte teorie fisiche, da un lato, e le teorie metafisiche, come la psicoanalisi e il marxismo ( nella sua forma presente ), dall’altro. Questa è, naturalmente, una delle mie tesi principali; e chiunque non l’abbia capita, non può affermare di aver capito la mia teoria” ( in Reply to my critics, 1974 ). Ma per il Grunbaum le cose non stanno così, con speciale riguardo alla psicoanalisi, dal momento che: “Anche uno sguardo superficiale sui titoli degli scritti e delle lezioni di Freud basta a individuare due esempi di falsificabilità, di cui il secondo è un caso di falsificabilità riconosciuto. Il primo è lo scritto Comunicazione di un caso di paranoia in contrasto con la teoria psicoanalitica, e il secondo è la Revisione della teoria del sogno”. E poi: “Quale dimostrazione ha mai dato Popper per ribadire con enfasi che il corpus teorico freudiano è completamente privo di teorie falsificabili, o conseguenze empiricamente controllabili ?” Invece: “Ben lungi dal non essere capaci, come un mito, di fare predizioni falsificabili, la teoria psicoanalitica fa delle previsioni che appaiono ‘rischiose‘ secondo i parametri di Popper”. Inoltre: “Freud fece un’importante ritrattazione per quanto riguarda i meriti terapeutici distintivi, che aveva preteso enfaticamente per la propria modalità di trattamento psichiatrico”. Poi Grunbaum concede ‘dialetticamente’: “Ma se anche uno psichiatra assume un atteggiamento non falsificazionista, ciò non vuol dire in senso assoluto che ogni teoria e prassi psicoanalitica sia non falsificabile” e non ammetta, quindi, il principio di “falsificabilità” nel suo proprio seno. Con siffata ‘estensione’, Grunbaum, che non lo cita mai espressamente, sembra alludere a Jung, allargando le maglie della interpretazione ad altri indirizzi terapeutici, dove il criterio falsificazionista è ampiamente predicato. Ancora: “Nel saggio A proposito di una critica della ‘nevrosi d’angoscia’, Freud dichiara esplicitamente quale tipo di scoperta accetterebbe come esempio di confutazione per la sua ipotesi sulla eziologia della nevrosi d’angoscia”. E il suo apporto metodologico è, altresì, esplicitato in Costruzioni nell’analisi del 1937 ( coevo di Analisi terminabile e non terminabile ), saggio “dedicato alla logica della conferma e della confutazione clinica delle interpretazioni e ricostruzioni psicoanalitiche del passato del paziente” ( cfr. A. Grunbaum, I fondamenti della psicoanalisi, trad. it. di S. Stefani, Milano 1988 ). Da ultimo, se Popper critica il concetto analitico di “ambivalenza”, proprio perché tendente a rendere ancipite la spiegazione dei casi di nevrosi, nel saggio La scienza: congetture e confutazioni ( Congetture e confutazioni, ed. it., Bologna 1976 ); Grunbaum, da parte sua, replica a Popper: “Nella misura in cui vi è reale convergenza sui precisi criteri di falsificazione per quelle teorie che Popper considera ‘scientifiche’, non si vede perché tale convergenza dovrebbe essere di principio più elusiva nel caso di concetti psicoanalitici “ ( cfr. Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, a cura di Marcello Pera, Roma 1988 ).
Ovviamente, nessun ‘autore’ o filosofo essendo un monolite, si possono reperire nelle varie trame discussive o tessere teoriche casi di messa in discussione o concessioni al metodo falsificazionista: donde la puntigliosa ricognizione di Grunbaum, che va oltre Popper, allo scopo di trovare squarci di teoria scientifica nella psicoanalisi, attraverso saggi o tesi assumenti ex professo il principio di falsificabilità. Ma il curioso è ( lo notavo già nel 2001 in Filosofia del giusto – Psicologia del profondo, Bari, Laterza, alle pp. 73-89 ) il fatto che entrambi gli epistemologi, intesi alla loro puntuale critica o ricomposizione diatribica, hanno dimenticato il caso più macroscopico e di “merito” di falsificazione, oggettivamente accertato dal Freud: che è il saggio Al di là del principio di piacere, del 1920, là dove la “prima topica” freudiana della psiche, fondata esclusivamente sulla libido e che portava alla sistemazione triadica di Es – Io – Super-Io, veniva scompaginata e come rivoluzionata con l’acclaramento del principio di “morte” o “distruttività umana”, subentrando la “topica” di Eros e Thanatos, donde sarebbero derivati i molteplici corsi interpretativi di Erich Fromm ( 1973, 1975 e anni seguenti ), Marie Bonaparte, Norman Brown ( La vita contro la morte),Matteucci, Carotenuto, Antonelli ( Per morire vivendo ) ed altri. Riforma, direi “ontologica” ed “esistenziale”, dovuta ai risultati delle analisi, specie di pazienti femminili, a seguito dei traumi indotti dalla prima guerra mondiale. Gli è, infatti, che “la realtà è storia e nient’altro che storia” ( come accennavo in premessa sulla linea storiografica e spirituale di Croce e suoi ‘eredi non inerti’, tra cui il Franchini e il Galasso ). Ed è questa ‘situazione’ storica a motivare il nuovo quadro ‘concettuale’ freudiano.
Freud e Jung.
Nel “metodo”, è discutibile accreditare la tesi falsificazionista al Freud; nel “merito”, in re ipsa, sul piano ontologico-esistenziale, c’ è almeno un caso notevole di autocorrezione, all’altezza del 1920, e tale da procedere dal cosiddetto “Freud edonista” al “Freud moralista”. Per quanto riguarda lo Jung, nella Risposta a Buber, che gli aveva mosso la obiezione di “gnosticismo”, provocando così un impegnativo discorso critico, nella Psicologia e religione del 1963, lo psichiatra si sofferma sulla tesi “falsificazionista” della psicologia analitica, in quanto “scienza”. Il suo “metodo” – afferma Jung – è “scientifico” perché ammette il principio di “confutazione”, e anzi lo presuppone ai fini del “successo terapeutico”. Ma permaneva una contraddizione: passando dal “metodo” al “mondo”, dall’accorgimento epistemologico al merito della psicoanalisi come “scienza dell’anima”, si riscoprivano degli apriori, dei criteri o prerequisiti che presidiavano la “psicologia del profondo” ( In parte durava il frutto, per Jung, della eredità kantiana sui princìpi di associazioni nei soggetti normali, frutto esposto in un importante saggio giovanile ). Questi apriori erano: la “coincidentia oppositorum” ereditata dall’alchimia e dalla filosofia rinascimentale italiana, poi versata nella “dottrina della dialettica” e confermata nello studio delle religioni orientali ( Yin e Yang ); la forte presenza del “numinoso” e del “sacro” nel corso dell’analisi; la ricerca di “verità e saggezza statistiche” nell’analisi; la “ambivalenza” dei risultati all’esito della drammaticità dei vissuti esistenziali ( “ambivalenza” cui allude Popper, allorché formula la propria Reply to my critics ). “Dire la cosa giusta al momento giusto e nel luogo giusto”, asserisce e conclude, per questa parte, Jung ( echeggiando motivi de I Ching, il Libro dei mutamenti presentati all’ Occidente: cfr. Fritjof Capra, Il Tao della Fisica, con il mio “La Fucina del mondo”. Sintesi del vitale ). Così, Jung riorganizza la esposizione del proprio “metodo”: “Perché si dà tanta importanza al fatto che io sia gnostico o agnostico ? Perché non si dice semplicemente che sono uno psichiatra cui preme anzitutto esporre e interpretare il suo materiale sperimentale ? (..) Mi permetto di far presente al mio critico che io sono stato tacciato non soltanto di gnosticismo e del suo contrario, ma anche di ateismo e teismo, di misticismo e materialismo” ( cfr. la ed. it. di Psicologia e religione, a cura di Elena Schanzer e Luigi Aurigemma, Torino 1992, pp. 461-462 ). La risposta a Buber di Jung procede, poi, con osservazioni di fondo, sulla Weltanschauung dell’inconscio e dell’archetipo.
“L’analisi dell’inconscio ha già da un pezzo dimostrato la presenza di queste ‘potenze’ nella forma d’ immagini archetipiche, che però non s’identificano con i corrispondenti concetti del pensare. (..) Questi sono ‘tipi’ numinosi: contenuti, processi e dinamismi inconsci, se così si può dire, trascendenti-immanenti. D’altronde, ho anche visto quel che si esprime con le parole bellezza, bontà, saggezza e grazia. Queste esperienze degli abissi e delle vette della natura umana giustificano l’uso metaforico del termine daimon” ( op. cit., pp. 463-464 ). Così, nel ‘merito’, Jung riattinge postulati metafisici, quali ‘archetipo’, ‘tipo’ numinoso, ‘contenuti processi e dinamismi inconsci’, per giunta elementi ‘trascendenti-immanenti’ ( come aveva già fatto nel corso dei ripetuti chiarimenti sul concetto di ‘archetipo’, espungendo proprio quel ‘falsificazionismo’ che invece rivendicavva nel ‘metodo’ terapeutico: cfr. il mio coevo “Archetipo” junghiano e “Senso comune” vichiano ).
La ripetuta affermazione del carattere scientifico del metodo analitico è affidata da Jung allo scritto coevo Bene e male nella psicologia analitica, là dove, dopo qualche osservazione a proposito del carattere ontologico della propria visione del mondo ( “bene e male sono in sé principii” ), Jung tocca il valore della “saggezza pratica” e della “scelta”, indicandoli come criteri effettuali del principio di “falsificabilità”. “Da dove ci viene questa fede, questa apparente sicurezza di conoscere il bene e il male ? ‘Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum’ ( Genesi 3,5 ). Soltanto gli dèi lo conoscono, noi no. Ciò è straordinariamente vero, anche dal punto di vista psicologico. Se uno prende un atteggiamento di questo genere: ‘Forse la tal cosa è mal fatta, forse no’, allora avrà una chance di fare la cosa giusta, ma se sa già tutto in anticipo si comporta come se fosse un dio. Siamo soltanto uomini limitati e, in fondo, non sappiamo concretamente quello che in un caso è bene o male. Lo sappiamo solo in astratto. Penetrare completamente una situazione compete soltanto a Dio. (..) Quando pronunciamo giudizi enfatici, ci troviamo in uno stato emotivo che è il meno propizio alla definizione di criteri valutativi” ( cfr. Psicologia e religione, cit., pp. 469-470: l’originale è del 1953 ). Per ciò, aggiunge Jung: “Quando in excessu affectus, in una situazione a tonalità affettiva, mi scontro con un fatto o con un accadimento paradossale, mi scontro, in fin dei conti, con un aspetto di Dio, che non posso giudicare e superare logicamente, perché è più forte di me, perché, in sé, ha carattere numinoso e io v’incontro il tremendum e fascinosum. (..) Conosciamo soltanto la superficie delle cose, sappiamo soltanto come esse ci appaiono, e dobbiamo perciò farci molto modesti” ( op. cit., p. 471 ). Dove l’impianto gnoseologico si traduce in una conferma di metodo psicoanalitico, di analisi come scienza ( l’invito a “farsi modesti” ). Lo chiariscono meglio i casi e le deduzioni del discorso junghiano: “Voglio impedire a una persona di andare diritta verso un pericolo mortale. Se riesco, penso di aver assolto il mio compito terapeutico; ma più tardi, quando la persona non segue più il mio consiglio e cade in quel pericolo, vedo che era giusto che vi cadesse. E qui sorge il problema: non doveva quella persona cadere in quel pericolo mortale ? Se non avesse osato, se non avesse rischiato la vita, sarebbe forse stata privata di un’esperienza della medesima importanza. Non rischiando mai la propria vita, non l’avrebbe mai conquistata”.
Altro esempio riguarda il trasferimento dell’ “ombra” dall’ Antico al Nuovo Testamento ( in effetti, trattasi di prefigurazione o “figura Christi” nelle Sacre Scritture; e di lato oscuro della personalità nella psicologia analitica ). “Quel che nell’ Antico Testamento appare “in umbra”, si svela nel Nuovo alla luce della ‘verità’. Questo avviene anche psicologicamente. E’ una presunzione da parte nostra ritenere di poter sempre dire quel che è bene e quel che è male per il paziente” ( p. 472 ). Tutto ciò apre degli squarci sui limiti dell’analisi nella episteme attuale. La “presunzione” fatale, il “ritenere di sapere”, corrisponde alla tesi di “scuola” di Dario Antiseri ( Teoria unificata del metodo, Padova 1972 ) per un verso; alla teoria del limite “prospettico” nel filosofo Raffaello Franchini (Teoria della previsione, Napoli 1964 e 1972; Interpretazioni da Bruno a Jaspers, Napoli 1975 ), per l’altro: e comunque, alla lezione di aver a cuore la sanità e la vita del paziente, piuttosto che di affezionarsi alla propria “diagnosi” iniziale ( Antiseri-Galzigna, sulla terapia medica ).
Arrivato a questo punto, Jung tratteggia assai bene la portata esistenziale del dramma umano, del precario discrimine tra bene e male “in situazione”, discrimine ogni volta nuovo e mai prefigurabile in anticipo o in astratto. “Quando siamo nel fitto del combattimento, abbiamo la sensazione di essere abbandonati da tutti gli spiriti buoni. Nelle situazioni critiche, all’eroe manca sempre la sua arma; in un siffatto momento noi siamo confrontati con la nudità della situazione, come accade davanti alla morte. E non sempre sappiamo come ci siamo arrivati; migliaia di concatenazioni fatali ci conducono improvvisamente a una simile situazione. L’uomo non può far altro che accettare la lotta: questa è una situazione in cui lo si sfida a reagire nella sua interezza. (..) La realtà del bene e del male consiste in cose, in situazioni, che ci investono, che ci superano, in cui ci veniamo a trovare come in conspectu mortis, in cui si tratta di vita o di morte”. Perciò, si può accertare: “La morale convenzionale è come la fisica classica: una verità e una saggezza statistiche. Il fisico di oggi sa bene che la causalità è una verità statistica, ma nel caso pratico continuerà a consultare la legge valevole per quel caso” ( p. 474: mie le sottolineature nel testo ).
Psicologia analitica e visione del metodo terapeutico.
Poi, Jung prosegue lumeggiando il referente vitale e passionale del dramma della “scelta”, traendo esempio dalle religioni orientali. “Mettere una persona davanti alla propria ombra equivale a mostrarle ciò che in essa è luce. Chi ha fatto questa esperienza, chi nel giudicare sta a mezza strada tra gli opposti, sente inevitabilmente che cosa s’intenda con il proprio Sé. Chi percepisce contemporaneamente la propria ombra e la propria luce, vede sé stesso da due lati e, in tal modo, raggiunge il centro. E’ questo il segreto dell’atteggiamento orientale: la contemplazione degli opposti rivela all’uomo orientale la natura del maya che presta alla realtà un carattere illusorio. Il veramente reale si trova dietro gli opposti e negli opposti; esso vede e abbraccia l’ intero. L’indiano lo chiama atman. L’introspezione ci fa dire: ‘io sono colui che dice il bene e il male’, e ancor meglio: ‘Io sono colui per mezzo del quale è detto ciò che è bene e ciò che è male’. (..) Ciò corrisponde a quello che l’orientale chiama atman che, detto figurativamente, ‘mi pervade’. Ma non me soltanto, bensì tutti, cioè non è soltanto l’ atman individuale, bensì l’ atman purusa, l’ atman generale, lo ‘pneuma’ che tutti pervade. In tedesco, adoperiamo a questo fine la parola Selbst ( Sé ), in opposizione al piccolo Io. (..) Quello che qui chiamiamo ‘Sé’ non è soltanto in me ma in tutti, come l’ atman, come il tao. E’ la totalità psichica” ( pp. 475-476 ). Dopo aver trattato della “sottigliezza” nella metafisica orientale del bene e del male, e del principio di ‘disordine esteriore’ che anche nelle liti tra due contadini che si scontrano a Ceylon non riesce a turbare la realtà delle loro anime ( è il ‘disordine an-atman’ ), Jung passa decisamente al problema pratico, oggetto della psicologia analitica, in quanto metodo scientifico: “Che cosa deve fare lo psicoterapeuta ? Deve istradare il paziente perché possa trattare con il male, o deve costringerlo a trovare la strada da solo ?” – “Mi viene la tentazione di stabilire una regola, ma preferisco dare questo consiglio: fate una cosa e l’altra, agite da terapeuti e non aprioristicamente, fate attenzione in ogni singolo caso a quel che richiede la situazione concreta. Bisogna dire la cosa giusta al momento giusto nel luogo giusto. Perciò dico ai giovani terapeuti: imparate quanto vi è di meglio, sappiate quanto vi è di meglio, ma poi, quando incontrate i pazienti, dimenticate tutto. Nessuno è un buon chirurgo per il fatto di aver imparato a memoria il libro di testo” ( pp. 478-479 ). In fondo, il notevole consiglio junghiano risponde bene al monito di Luigi Einaudi nelle sue Prediche inutili, circa l’unica “regola” per l’esercizio delle professioni ( medico e avvocato, insegnante o architetto, psicologo e psichiatra ), quella di “imparare dagli errori” e non da una astratta “precettistica” ( Popper consenziente ). In fondo, tale lezione ‘umanistica’ è tematizzata con accenti notevoli da Raffaello Franchini: “E’ di particolare interesse per il nostro studio poter mettere in risalto non solo il carattere qualitativo-intuitivo che la previsione nel campo medico tende naturalmente ad assumere allorché deve operare nel concreto di una situazione determinata, ma che addirittura si sia riconosciuto, specie nel campo della psicoanalisi, che dopo tutte le diagnosi basate su leggi e generalizzazioni e statistiche, il medico s’impegna in un compito ‘genuinamente artistico‘, che è quello di aiutare il paziente a risolvere il suo problema” ( cfr. Teoria della previsione, cit., pp. 106 sgg. ). Dove sembra che il Franchini alluda agli sviluppi e accertamenti della psicologia analitica junghiana, ovvero anche alla psicologia umanistica di Fromm e relativi corsi critici. Ovviamente Jung, invitando alla “prudenza” terapeutica o parlando di “saggezza e verità statistiche” per la scienza dell’anima, oltre che per le teorie fisiche contemporanee, non si pone il problema previsionale-prospettico nei termini propriamente filosofici della “cura”; ma si limita a cogliere il piano generale di preparazione non determinante ai fini della terapia, di travaglio decisionale del medico stesso, suggerendo alcuni criteri che realizzano il principio di “falsificabilità” nell’analisi:
1) “Il paziente non deve accomodarsi nell’idea o stato di malattia. Non dovete considerare il paziente un essere inferiore da far sdraiare su un divano, per poi sedervi dietro di lui, come un dio, lasciando cadere una parola di quando in quando” ( allusione alla scuola freudiana, responsabile in America di casi simili e financo peggiori: v. l’esempio del cosiddetto “suicidio” di Marilyn Monroe ).
2) “Bisogna evitare tutto ciò che potrebbe anche suggerirgli l’idea che è malato. Il paziente tende già da sé in quella direzione e sarebbe lieto di rifugiarsi nella malattia. – ‘ E’ finita, non mi resta che sdraiarmi, sono malato e spacciato ‘ “.
3) “Anche la malattia, in fin dei conti, è una specie di tentativo di risolvere i problemi della vita. ‘Adesso sono malato, adesso ci deve pensare il dottore !’ – ‘ Come terapeuta, non posso permettermi di essere ingenuo ! ‘ “.
4) “Il paziente, se non è tanto grave da essere costretto a letto, deve essere considerato una persona normale, vorrei dire un partner. Questa è la base giusta dalla quale la terapia può prendere le mosse. Spesso mi si presentano persone che attendono da me un miracolo medico; quando li tratto come persone normali e mi comporto come un uomo normale, sono delusi”.
5) “Una paziente aveva esperimentato in un altro medico soltanto il ‘dio silenzioso’ dietro il divano. Quando cominciai a parlare, mi disse stupita, quasi scandalizzata: ‘ Ma lei esprime affetti, perfino la sua opinione ! ‘ – ‘E’ naturale che io abbia degli affetti e anche che li esprima. Nulla è più importante di questo: ogni essere umano va preso veramente come un essere umano e trattato secondo la propria natura’ “.
6) Tornando al principio: “Perciò dico ai giovani terapeuti: imparate quanto vi è di meglio, sappiate quanto vi è di meglio, ma poi, quando incontrate i pazienti, dimenticate tutto “ ( p.479 ).
In sintesi, codesta metodica non è dissimile dal “metodo genuinamente artistico” che l’ermeneutica filosofica ascrive al compito del medico-terapeuta ( il citato Franchini, sulle tracce di Karl Jaspers ed Erich Fromm; Enzo Paci, studioso del “vitale” in Croce; Nicola Abbagnano, studioso di psicoanalisi e dell’esistenzialismo ). Tra l’altro, il metodo “artistico” nella cura riporta alla mente la discussione di fine Ottocento, al declinare del positivismo, tra Pasquale Villari e Benedetto Croce se “La Storia fosse una scienza o un’ arte”; e Raffaello Franchini rilancia l’alternativa epistemologica accentuando la accezione probabilistica, giammai astratta, delle scienze contemporanee. Per questo motivo, la ‘dialettica delle passioni’ è il vero fondamento della ‘coniunctio’ alchemica e della ‘coincidentia oppositorum’ teologico-filosofica, di cui Jung era maestro. Anzi, lo stesso Jung la ipostatizza, non solo nella risposta alla BBC di Londra: “Lei crede in Dio ?” – “Non ho bisogno di credere in Dio, perché lo conosco”, ma anche in diversi inoltramenti ontologici. “Qui sono proprio i principia, le ‘potenze originarie’ che si avvicinano all’uomo, che lo trasferiscono in una situazione numinosa in cui non vi è soluzione puramente razionale, in cui l’uomo non si sente ‘fattore’ e ‘signore’, ma sente che di una simile situazione è ‘fattore’ Dio. Nessuno può prevedere che cosa accada allora, come si risolva in simili situazioni il problema del bene e del male. (..) Nel rendere il paziente conscio dell’ Ombra, bisogna fare molta attenzione che l’inconscio non gli giochi altri tiri impedendogli un genuino confronto con quella. Può accadere che un paziente veda per un attimo quanto in lui vi è di oscuro; ma al tempo stesso dice che non va poi così male e che sono sciocchezze. Oppure un paziente esagera nel pentirsi, perché è cosa meravigliosa avere un così ‘bel’ pentimento, e gustarlo come si gusta un tepido letto di piume in un freddo mattino d’inverno quando è l’ora di alzarsi. Questa mancanza di sincerità, questo non voler vedere fa sì che egli non giunga a una spiegazione con la sua Ombra”. “E’ per questo – aggiunge lo psichiatra con gesto autocritico per un cultore di alchimia – che la gente ama i drammi, i film, i predicatori che la commuovono: perché poi gusta la propria commozione. (..) Ma i veri segreti non si possono tradire, né si può fingere con essi, fare dell’ ‘esoterismo’ appunto perché non si conoscono. I cosiddetti segreti ‘esoterici’ sono per lo più segreti artificiali, non veri. L’uomo ha bisogno di segreti, e dato che di quelli veri non ha la minima idea, se ne fabbrica di finti. Ma quelli veri lo aggrediscono dalle profondità dell’inconscio, così che gli può accadere di rivelare allora cose che avrebbe veramente dovuto tenere segrete. Anche in questo vediamo il carattere numinoso della realtà recondita: non siamo noi ad avere segreti; sono essi, i segreti veri, che ci possiedono” ( pp. 480-481).
Dio è dunque per Jung, come il “Sacro” per Rudolf Otto, ipostasi dei contrari, insieme misterium tremendum e misterium fascinosum, incute amore e tremore, attrae e atterrisce: è la sintesi di tutte le sintesi. Mi sta in mente, per diverse vie, l’ “accadimento” nella Filosofia della pratica in Croce, come “l’opera del tutto: la volontà è dell’uomo, l’accadimento è di Dio”, “l’accadimento è l’insieme di tutte le volizioni; è la risposta a tutte le proposte” ( Bari 1909, pp. 54-55 ). E, con esso, è da riprendere un passaggio della franchiniana Teoria della previsione, su “probabilità scommessa caso”, dove sono colti l’oscuro senso della “totalità”, l’orizzonte della “scelta” esistenziale e il fattore “rischio” che essa comporta. “Ma è forse più ragionevole indicare in un oscuro senso della totalità, del collettivo, dell’umanità come tutto, codesta forza misteriosa che spinge incessantemente l’uomo a sopravviversi, a trascendersi, a andare cioè oltre sé stesso anche malgrado il rischio della fine. (..) Che cosa si offre, in cambio della sicurezza di non puntare su ciò che è pericoloso e incerto ? L’uomo che evita di impegnarsi a favore del positivo, trova forse pace nell’accettazione passiva del negativo ? Fuggirà l’amore perché suscettibile di portare con sé le inevitabili delusioni, il suo stesso dolente esaurirsi, o magari le reciproche infedeltà, o le cure e i pericoli della prole: lo coglieranno allora le delusioni e le tristezze della vita di scapolo, lo tormenterà il pensiero di non sentirsi continuato dai figli, lo angoscerà la mancanza della gentilezza e dell’affetto di una compagna. Se avrà fuggito l’amore non sfuggirà al dolore, e i conti torneranno a suo svantaggio, la sua sarà una scommessa negativa; la vita, con le sue leggi indistruttibili, avrà scommesso per lui. (..) In realtà ogni atto umano reca con sé il rischio del fallimento, onde il detto popolare che soltanto chi non fa non sbaglia: chi desidera solo di non sbagliare in realtà non desidera di agire, è masochista chi finisce col godere del proprio fallimento, trovando in tale gioia un morboso compenso alla sua impotenza politica. Politica, s’intende, non in senso ristretto ma estremamente largo, come capacità di agire nel mondo con prudenza e tempestività, inserendosi nelle situazioni concrete” ( cit., pp. 54-57 ).
Fallibilismo e metodo della “concordanza necessaria”.
Quindi, riepilogando i presupposti epistemologici e i contenuti ontologici della ‘nuova’ psicologia del profondo, si accerta che Jung tende a evitare confutazioni o falsificazioni in merito alla natura oggettiva di “archetipo”; ma accetta il principio del fallibilismo nel metodo dell’analisi e nel rispetto del caso singolo del paziente, in situazioni concrete. Freud, invece, sembra attuare l’autocorrezione esistenziale, passando dal periodo “edonista” al riconoscimento “moralista”, scaturito storicamente dalla realtà dell’analisi dopo il primo conflitto mondiale, e dalla prima “topica” procedendo alla seconda ( 1920 ); ma espunge il fallibilismo nella gran parte degli indirizzi terapeutici e del metodo dell’analisi ( salvo correttivi parentetici o concessioni marginali ). In particolare, il più scaltrito Carl Gustav Jung, nella “risposta a Buber” e in Psicologia e religione, apre al metodo “popperiano”, dal momento che sostiene: 1) che il metodo psicoanalitico è “scientifico”; 2) che è “scientifico”, in quanto “falsificabile”; 3) che la gamma di criteri che lo rendono “falsificabile” consiste nella compagine teoretica: a) ‘coincidentia oppositorum’; b) presenza del mistero “numinoso”, perché insieme “tremendo” e “fascinoso”, nell’inconscio; c) centralità e importanza del riconoscimento delle “verità e saggezza statistiche in analisi” ( alla stessa stregua che nelle teorie fisiche contemporanee: ciò che manca al positivista Freud ), e infine d) richiamo alla esperienza concreta delle situazioni di hic et nunc, nel corso dell’analisi.
D’altro canto, sul versante del filosofare umanistico o storicistico abbiamo:
1) Franchini tiene notevole conto del “genuino metodo artistico” in medicina ( oltre che in statistica e legislazione ), ma anche e nuovamente nella psicologia analitica dopo Freud.
2) Popper non menziona mai Jung, dando la palma della esponenzialità nella psicoanalisi al fondatore Freud, e allegando a riscontro il di lui allievo e prosecutore, ma parzialmente critico, Adler. Secondo l’argomento ex silentio, è lecito supporre che lo stesso Popper avrebbe a maggior ragione respinto come “residuo metafisico” il ricorso al ‘numinoso’ e al ‘religioso’ presso Jung, come le ipostasi di “archetipo” e di “ambivalenza” nella esplicazione dei processi psichici.
3) Eppure, la risposta ‘metodologica’ a Buber e ‘contenutistica’, a proposito di “Bene e male in psicologia”, da parte di Jung, rientra a pieno titolo nella discussione sul “metodo” della psicologia del profondo.
4) Tuttavia, non solo Popper, ma nemmeno il citato Grunbaum, tengono conto della profonda e complessa revisione junghiana, sia per la critica alla psicoanalisi ( sviluppata dal primo ) che nella replica controdeduttiva a codesta critica ( elaborata dal secondo ).
Perciò, se torniamo al nucleo della revisione della teoria psicoanalitica freudiana, individuato dal Grunbaum, notiamo che tale nucleo è la resultante di due premesse, che egli chiama la “tesi della concordanza necessaria”. Le due premesse sono: 1^ – Soltanto la interpretazione e il trattamento tipici del metodo psicoanalitico possono produrre il medium, da parte del paziente, per la personale visione delle cause inconsce della nevrosi. 2^ – La corretta visione, da parte del paziente, della causa conflittuale inconscia che sta alla base della nevrosi, è necessaria per una duratura ed efficace terapia della stessa. La sintonia di queste due premesse è detta da Grunbaum “tesi della concordanza necessaria”, in base alla teoria freudiana, per cui la “soluzione dei suoi conflitti ( i.e.: del paziente ) e il superamento delle sue resistenze riescono solo se gli sono state date quelle rappresentazioni anticipatorie che ‘concordano’ con la realtà che è in lui” ( cfr. P. Parrini, Linguaggio e teoria. Due saggi di analisi filosofica, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 188-194 e 210-261; G. Reale – D. Antiseri, Storia della Filosofia, vol. 3, Parte diciannovesima. Capitolo cinquantatreesimo, pp. 1094-1095 ). Possiamo, dunque, chiederci:
1) Ora, codesta “tesi della concordanza necessaria” non si ritrova proprio nel metodo psicoanalitico “artistico”, nella interpretazione in situazione concreta e nella saggezza del tempo e luogo “giusti”, rivendicati da Jung, o filtrati speculativamente nella “teoria della previsione”, in filosofia ?
2) E il fatto che “Freud presume che una visione corretta, da parte del paziente, delle cause dei propri disturbi, eliminerebbe tali disturbi”, non riporta alla presenza del “numinoso” e dell’ Ombra, il lato oscuro “causa dei disturbi”, nella Risposta a Giobbe del 1952, e più in generale nel corso del pensiero junghiano ?
3) Ancora: la “dialettica delle passioni”, fondamento della congiunzione degli opposti alchemica e della ‘coincidentia oppositorum’ riscoperte da Jung, non si riflette nella stessa ipostasi divina, come compresenza del “fascinoso” e del “tremendo” nel “numinoso”; mentre è agìta e sofferta dal basso come “timore e tremore”, “amore di Dio” e “orrore di Dio” ?
4) Infine: la “dialettica delle passioni” non si particolarizza – forse – come dialettica di Ombra e luce, lati notturni e solari, determinando la ricerca del “Sé” come “totalità psichica” per un verso, e premessa per la “concordanza necessaria”, e la “cura” delle ferite, dall’altro ?
Abbiamo posto a interazione e confronto le più importanti dottrine e revisioni interne o correzioni esterne in psicoanalisi e filosofia del profondo, onde farne scaturire la maggior attenzione alla individualità di ciascun caso umano, al contenuto di “saggezza e verità” insito nel principio di fallibilità, alla modestia e umiltà dell’umano interrogarsi sulla genesi della gioia e del dolore, riprendendo linee di precedenti lavori ( Tempo e Libertà. Teorie e sistema della costruttività umana, Manduria 1984, specie alla parte La libertà tra Antoni e Fromm; L’Anima e l’Occidente, Andria 2000, frutto della collaborazione con il Dipartimento di Psicologia della Università di Firenze e il C.N.R. – Area della Ricerca di Firenze, diretto da Alberto Tronconi; il trattato Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva. I. Dal mondo antico a Mozart. II. Da Kant al postmoderno, Bari 1999, Sezione XIV. Capp. I e II. Sigmund Freud e ‘Al di là del principio di piacere’ e Carl Gustav Jung: Psicologia e alchimia. La lotta dei contrari tra sincronicità e enantiodromia; Il vivente originario, Libertates, Milano 2013 e I conti con il male, Bari 2015 ). La “riapertura” della prospettiva junghiana ( confermata dalla sopravvivenza di riviste e trattati di psicologia analiticae di una larga “scuola”, sia in Italia che a livello europeo e mondiale ), ci permette di tornare sulla domanda o curiositas iniziale: – ‘E’ la psicoanalisi scienza o arte ?’
Se il metodo “artistico” è non solo citato, ma invocato, in terapia ( Jung ) come nella filosofia della previsione e dell’esistenza ( Franchini, Jaspers, Minkowskj ), si propenderà, in tal caso, per l’ascrizione della psicoanalisi al campo dell’ “arte” ( Hillman, Carotenuto ) piuttosto che a quello della “scienza rigorosa” ( neopositivismo, Husserl ) ? O non piuttosto, permane un importante “residuo” ermeneutico che, tuttora, ci sfugge ?
A che titolo entra in gioco l’ “Arte”, nel metodo terapeutico della “prudenza” e “saggezza” pratica, dell’ individuazione del “Sé” e delle sue ferite e scissioni; o nella definizione epistemologica in generale della psicoanalisi ? Dobbiamo tornare, per un verso, alla crisi del positivismo e di ogni forma di determinismo causalistico nelle scienze umane; e, per l’altro, alla discrasia tra Freud e Jung, compendiata nell’ alternativa fallibilismo – dogmatismo nell’uno o nell’altro dei due giganti della psiconalisi. Se Freud accetta, ontologicamente, almeno un punto di fondamentale critica e autocorrezione; ma non, metodologicamente, per il corso terapeutico; Jung sembra, al contrario, sposare il fallibilismo in lungo e in largo sul terreno dell’analisi; ma scansarlo ripetutamente nella definizione di concetti importanti quali “Archetipo”, “Ombra”,”sincronicità” e via.
Il sogno degli antichi e il sogno dei moderni.
Tutto ciò significa che certamente c’è una esigenza di movimento interno, di più sfumata lettura dell’inconscio e dei suoi processi; ma che tale esigenza si polarizza – di volta in volta – in situazioni cliniche o plessi teorici disparati, dis-locati territorialmente e pure incrociantisi specularmente, senza andar tuttavia veramente al fondo del problema. Mi sta in mente il grandioso libro IV del De rerum natura del poeta e filosofo latino Lucrezio, libro mai citato dai dotti della psicoanalisi, e dedicato alla pregnanza del sogno e alla ricorrenza ed intreccio dei simulacra, corrispondenti agli “eidola” del mondo omerico e greco. “Quia tempore in uno, / quod sentimus, id est, cum vox emittitur una, / tempora multa latent, ratio quae comperit esse, / propterea fit uti quovis in tempore quaeque / praesto sint simulacra locis in quisque parata: / tanta est mobilitas et rerum copia tanta” ( vv. 791-801 ). Che vuol dire: “Perché in un solo istante di tempo / che possiamo avvertire, e cioè il tempo d’emettere un unico suono, / si nascondono molti tempi, che la ragione discopre esistenti; / per la qual cosa succede che in un momento qualsiasi / ogni specie di simulacri sià già lì ben pronta e disponibile in qualunque luogo: / tanta ne è la mobile velocità e tanto grande la abbondanza dei materiali”. E dopo: “Perché dunque stupirsi, se l’animo perde ogni altra cosa, / se non quelle verso cui è impegnato fortemente esso stesso ? / Poi, da piccoli indizi inventiamo massimi sistemi, / e da noi stessi ci gettiamo in illusorio inganno”. ( vv. 802-817: 815 sgg. ). In originale: “Cur igitur mirumst, animus si cetera perdit / praeterquam quibus est in rebus deditus ipse ? / Deinde adopinamur de signis maxima parvis / ac nos in fraudem frustraminis ipsi “. Dove l’ “adopinamur de signis maxima parvis”, il “da piccoli segni ricaviamo le più grandi teorie”, adombra il metodo stesso ante litteram della psicoanalisi e della psicologia analitica moderna, dal punto di vista epistemologico, dacché i “piccoli indizi” o “ridotti segni”, naturaliter, son fatti per sottrarsi alle “confutazioni” o tentativi di “falsificazione”. Notevolmente, Vittorio Enzo Alfieri coglie nella seconda edizione del suo Lucrezio il valore “archetipico” , mobile e sintetico, dei “simulacra” lucreziani. “Il canto dei moti dell’anima ( vv. 721-826 ) spiega le immagini della nostra fantasia e le immagini dei sogni, prodotte da simulacra vaganti per ogni dove ma tenuissimi, che penetrano per i rara foramina del corpo e producono immagini nell’animo.E i simulacra s’incontrano, s’incrociano , si confondono nell’aria, così da formare quelle immagini di Centauri, di Scille, di Cerberi, di ombre dei morti, che l’animo vede; si congiungono insieme l’immagine di un cavallo e di un uomo ed ecco l’animo vede un Centauro. L’animo è mobilissimo, e così avviene che ogni immagine, anche la più tenue, lo muova” ( Congedo, Galatina 1982, pp.144-156, dopo Atomos Idea del 1979 e La poesia di Lucrezio, Firenze 1929 ). La mobilità, fluidità, naturalezza del sogno e della percezione continua e poliforme dei simulacra è prerogativa degli antichi. “Così finiscono spesso i sogni, nel momento culminante”, nota Giulio Guidorizzi ne Il compagno dell’anima. I Greci e il sogno ( Cortina, Milano 2013 ). Achille che vuol rassicurare Patroclo e tenta invano di abbracciarlo, in Iliade, 23, 62-76. E il sogno di Penelope termina, con l’aquila che uccide le venti oche e s’alza al cielo luminoso. Ma, da lei interrogato, Odisseo risponde che il sogno non si può spiegare “voltandolo ad altro” nella storia esterna, perché esso ha “già detto come s’avvera”. Penelope espone la teoria della doppia natura dei sogni, di corno o “verace” e d’avorio o “fallace”, proponendo la gara dell’arco: gara che Odisseo accetta, sollecitandone i tempi. Ma Penelope, lamentando le pene del letto bagnato di lacrime, ricorda che “non possono sempre restare privi del sonno gli uomini”, e alla fine è vinta da “sonno soave”, gettatole da Atena “occhio azzurro” ( XIX dell’ Odissea, vv. 535-604 ). Odisseo termina, dopo lungo dibattimento interiore, vissuto in preparazione della vendetta, il proprio sonno, propiziatogli per due volte dalla dea Atena ( “Perché sveglio ancora, o infelicissimo fra tutti i mortali ?” – “Dunque anche te prenda il il sonno; è faticoso vegliare / tutta la notte desti. Dai mali presto uscirai” ); e sùbito “si destava la sposa fedele”, narrando il suo “proprio sogno” alla dea Artemide: “Sì, con me questa notte ha dormito qualcuno identico a lui, / qual era quando andò con l’esercito: e dunque il mio cuore / godeva, perché non pensavo che fosse un sogno, ma il vero” ( XX, vv. 1-90 ). Mobilità fluida ( al sogno e al sonno di Penelope subentrano la risposta e il sonno di Odisseo; quindi, la narrazione di quello di Penelope che pensava fosse il vero). E’ un “doppio sogno”, mirabile e antico, de persona in personam, nel flusso continuo e inespresso del desiderio nei due sposi, quello che si svolge nella Odissea 20, 1-94.
Invece, l’attività dell’inconscio in Freud è – bene spesso – “formale”, o “combinatoria”. L’Es, lucidamente e geometricamente, “occulta, omette, condensa, traduce, deforma, trasporta, sposta” ( Pietro Citati ). I “microscopici frammenti” ( “De signis parvis” ), in Freud e Jung, “formano un congegno ingegnoso” ( “Maxima” ), si può ancora dire con Lucrezio.
“Ogni vera storia è autobiografia”.
Epperò, per soddisfare al quesito sullo statuto epistemologico della psicoanalisi, il tentativo giusto di risposta risiede forse nell’abbandono del paradigma positivistico e meccanicistico, del modello “idraulico” di carico e scarico delle pulsioni, per sposare infine il concetto di “contemporaneità” della storia, di ogni vera storia: revisione cui l’istorismo moderno è pervenuto dopo la querelle a proposito della natura della storia, sorta sulla fine del XIX secolo. Benedetto Croce scrisse il volume, frutto di correzioni plurime e profonde, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte ( Loescher, Roma 1893 ), poi ampliato in seconda edizione, in risposta a Pasquale Villari, Bonaventura Zumbini e altri. Ma si badi al fatto – ermeneuticamente rilevante – che lo stesso autore fu a lungo combattuto sulla risposta più ragionevale da dare a codesto problema ed assillo: addirittura, Croce ricorda di aver intimato ai tipografi “Scomponete, scomponete ! “, quando stava già per andare in macchina il libro che sosteneva la tesi opposta, essere cioè la storia non “Arte” bensì “Conoscenza” e “scienza”. E la curiosità storica si spiega in quegli anni in cui si cercavano vie d’uscita nuove per le filosofie dei valori, oltrepassando gli schemi biografici, storici, letterari, dettati dal positivismo. Erano gli anni dell’interrogativo esser la storia scienza o arte, esser la pedagogia stessa scienza o creazione artistica. Erano anche gli anni in cui il giovane Croce usciva dalla terribile crisi del terremoto di Casamicciola ( 27-28 luglio 1883 ), grazie agli studi, alla erudizione appassionata e alla lezione di Antonio Labriola nel cosiddetto ‘triennio romano’ ( 1883-1886 ): crisi che lo aveva persino visto vagheggiare l’idea di suicidio, come confida nel Contributo alla critica di me stesso del 1915. – E’ il dramma sofferto, il “problema” vitale che impegna e assorbe il presente, a provocare il pensiero e dar il via alla ricerca storica: prima “personale”, poi “generazionale” e “collettiva”. E’ il problema, e il suo “avvertimento”, che offre la saldatura tra microcosmo e macrocosmo, Io e Sé, filogenesi e ontogenesi, vita individuale e comunità. Quindi, l’ambivalenza arte-storia si schiarirà soltanto nel 1915-1917, grazie alla autentica ‘rivoluzione’ del sistema crociano, elaborata in Teoria e storia della storiografia. Bisognerà passare a un’altra e superiore dottrina della storia, per capire che la storia è sì, e certamente, “scienza”; ma di una scientificità fondata sul problema-passione, sull’amore-dolore, e dunque sul ‘presente’, pùngolo per il pensiero; e fonte di ricostruzione rerum gestarum nella prospettiva dello schiarimento per l’azione, historia rerum gerendarum. Il riferimento al fattore “arte”, l’indicatore “artistico”, nella dinamica interiore della “conoscenza” ( e si dica storica o filosofica, scientifica, fisica o naturale, psicologica o psichiatrica ), sta ad indicare che la ‘dialettica delle passioni’, l’amore-dolore, il problema esistenzialmente vissuto costituiscono il sostrato per una più vasta e alta e complessa forma di “conoscenza” ( che non è più quella matematizzante e “geometrica” di tipo cartesiano, ma quella “storica”, nel cui ambito gravitano tutte le scienze dell’uomo, anche quelle della psiche e dell’inconscio, riscoperte dalla modernità ). ‘Ecco qui passa ognuno’, ‘Here Comes Everybody’, dirà quasi negli stessi anni James Joyce, il cui ‘flusso di coscienza’ canalizza in forme nuove il criterio della contemporaneità ideale della storia.
In effetti, in un passo su “Storia e cronaca”, Croce precisa la tesi: “Questi ravvivamenti hanno motivi affatto interiori; e non c’è copia di documenti o di narrazioni che possa effettuarli, anzi sono essi medesimi che raccolgono in copia e recano innanzi a sé i documenti e le narrazioni, che, senza di essi, rimarrebbero sparpagliati ed inerti” ( Teoria e storia della storiografia, ed. a cura di Giuseppe Galasso, Milano 1990, p. 27 ). Così, in un passaggio successivo, il Croce reca il magistrale esempio della battaglia di Borodino in Guerra e pace di Tolstoj: “Il Tolstoj s’era fisso in questo pensiero che, non solamente nessuno, nemmeno un Napoleone, possa predeterminare l’andamento di una battaglia, ma che nessuno possa conoscere come davvero essa si è svolta, perché, la sera stessa che pone termine alla battaglia, sorge e si diffonde una storia artificiosa e leggendaria, che solo uno spirito credulo può scambiare per istoria reale, e sulla quale nondimeno lavorano gli storici di mestiere, integrando o temperando fantasia con fantasia. Ma la battaglia è conosciuta via via che si svolge; e poi, col tumulto di essa, si dissipa anche il tumulto di quella conoscenza, solo importando la nuova situazione di fatto e la nuova disposizione d’animo che si è prodotta, e che si esprime nelle poetiche leggende o si attua con le artificiose finzioni. E ciascuno di noi conosce ed oblìa a ogni istante i più dei suoi pensieri e atti ( e guai se così non facesse, perché vivrebbe compitando faticosamente ogni suo minimo moto ! ); ma non dimentica o serba più o meno a lungo, quei pensieri e quei sentimenti, che rappresentano crisi memorabili e problemi aperti per il suo avvenire e talvolta, non senza alto stupore, noi assistiamo al risorgere in noi di sentimenti e pensieri, che credevamo irrevocabili. Onde è da dire che noi, a ogni istante, conosciamo tutta la storia che c’importa conoscere; e della restante, poiché non c’importa, non possediamo le condizioni del conoscerla, o le possederemo quando c’ importerà” ( op. cit., pp. 60-61 : sottolineature mie, nel testo ).
“Motivi affatto interiori”, “ravvivamenti” d’interesse superiori a ogni “copia di documenti e narrazioni raccolti”; “Tumulto di conoscenza” di fronte al “tumulto della battaglia”; interesse per la “nuova disposizione d’animo”; “conoscenza” e “oblìo” dei propri “pensieri e atti” ( e “guai se così non fosse” ); particolare ricordanza per “quei pensieri e sentimenti che rappresentano crisi memorabili e problemi aperti per l’avvenire”; financo spettacolo del “risorgere, in noi, di pensieri e sentimenti che ritenevamo irrevocabili”; infine, conoscenza “a ogni istante di tutta la storia che c’importa conoscere”: sono questi i motivi del più alto interesse per una analogia tra storia e psicologia del vissuto profondo, il cui trait-d’union è dato da pensieri e atti nascosti o dimenticati ma che possono risorgere perché rappresentazioni di “crisi memorabili” ( cioè, nel caso, la notte tragica del terremoto di Casamicciola ). Non “psicologia della rimozione” in Croce, come volle dire una volta il critico Giacomo Debenedetti; ma “psicologia del raccontarsi”, “autobiografia” come “storia”; storia del singolo uomo e delle sue crisi, che s’interseca con la storia del mondo e dell’universo; latenza e risveglio; dimenticanza e ricordo; ‘uomo comune’ come l’ ‘Ulisse’ del mondo moderno. Tutto ciò va enucleato dal fondamentale passaggio crociano, a evidenziare che la storia è sempre idealmente ‘contemporanea’. Il chiarimento, maturato nel 1915-17, rendeva ragione della esigenza di rinvenire in essa un momento “artistico”, un “motivo genuinamente artistico”, come nella psicoanalisi più scaltra e avvertita. Onde la psicoanalisi può dirsi ‘scienza’, perché e in quanto accetta il fallibilismo metodologico; ed anche perché è “storia” a tutti gli effetti, se pure come caso particolare, ma cospicuo, di storicità, essendo ogni storia partorita nell’amore-dolore, autobiografia e persino autoanalisi, sforzo di ‘liberazione dal passato’ ( come la disse Wolfgang Goethe ), catarsi e conoscenza delle “crisi memorabili” narrate e dimenticate, o già dimenticate e nuovamente evocate, che appassionano così lo scienziato delle scienze umane come il terapeuta, il filosofo e lo psichiatra, lo studioso del ‘mito’ e dei ‘ricorsi’, l’epistemologo e l’analista clinico.
N O T A. Sulla critica alla psicoanalisi di Vittorino Andreoli
Il saggio era già composto, definito e revisionato, quando è apparso il volume divulgativo del noto psichiatra Vittorino Andreoli, Freud. Sette lezioni sulla psicoanalisi ( Marsilio, Venezia 2019 ), che tocca aspetti e problemi di natura affine, o molto prossima alla mia, per la critica psicoanalitica. “Se, dunque, non posso ritenere valida la teoria di Freud dal punto di vista scientifico, psichiatrico e terapeutico”, – accerta lo psichiatra – “sicuramente la considero, insieme al suo geniale fondatore, una tappa che ha cambiato la cultura e, con la cultura, ha cambiato la storia” ( p. 123 ).
Andreoli si pone, non dal punto di vista per dir così “classico” da me adottato ( La psicoanalisi è scienza o arte ? ), ma dall’angolo visuale effettuale del quesito “La psicoanalisi è una scienza ? “, per negare tale riconoscimento. Reca, altresì, nuovi esempi di non “confutabilità” delle dottrine freudiane. E pur non citando mai né Popper né Grunbaum nel dibattito di “scuola”, sottolinea la voluta “non falsificabilità” delle spiegzioni di alcuni incubi e sogni presso il fondatore della psicoanalisi ( alle pp. 104-105 ); con la assurda “presunzione di sapere” ( p. 101 ). In particolare, per l’incubo dell’uomo dei lupi, concorda l’ Andreoli: “La cosa che più colpisce, ha scritto Mahony, è il modo in cui Freud ha individuato l’origine della fobia di Ernst, attraverso una catena di associazioni che, però, si basa su elementi fattuali inesistenti nel suo racconto o adattati da Freud per comprovare ciò che andava dimostrando”. Così accade per la spiegazione dell’altro incubo, “l’uomo dei ratti”: “quasi li avesse manipolati per far quadrare la propria teoria” ( pp. 104-105 ). Sembra, in ciò, dar ragione, ex post, alla citata lezione lucreziana: “Deinde, de signis adopinamur maxima parvis” ( Libro IV, 800-1036 ). “Poi, da piccoli segni ricaviamo per adattamento massimi sistemi”. Ne deduce – l’Andreoli – che la psicoanalisi non è “scienza”, nel raffronto con i casi esemplari delle altre scienze della natura ( es. Newton, per la legge di gravità, e via ).
Ora, non avvalorando – almeno espressamente – Kant o l’idealismo filosofico nei suoi svolgimenti ( Schelling, Croce, Hartmann, Herbart, Dilthey ), Andreoli sembra ignorare che esiste un tipo di scienza moderna, atta a partire dalla formulazione di un “problema-ipotesi”, al fine di elaborare le conoscenze; e che questa forma di “scienza” è, propriamente, la “storia”. Onde: 1. La storia è scienza. 2. Ogni vera storia è sempre autobiografia ( Croce ). In tale accezione, la psicoanalisi può dirsi scienza, ma soltanto in quanto “storia”, istoria dell’ anima e della psiche. Convergono tra loro, sul piano epistemologico, “Problemi – teorie – critiche” , per il metodo della ricerca scientifica ( Popper ); e “Nell’intimo della genesi storiografica” ( problema- domanda, cui si legano gli altri problemi, come “anelli di una catena” nella ricerca del passato e preparazione dell’avvenire:Croce ).
Invece, l’Andreoli sfiora il tema, trattato dal mio punto di vista, e avvicina in un passaggio la psicoanalisi alla “filosofia”; oppure, per l’affermazione quasi fideistica della visione del mondo in Freud, ancora più decisamente, alla “religione” ( pp. 117-119 ). “La psicoanalisi non ha nulla a che fare con la fisica o la biologia, nessuno dei suoi assunti è dimostrabile. Essa si situa, quindi, tra le discipline che non hanno la possibilità di essere dimostrate. Il modello è più vicino alla filosofia.
Un filone che considero molto affascinante, e ha, in sé, una logica coerente e un costrutto teorico forte, privo però di una sequenza riportabile all’analisi sperimentale. E dunque, sebbene Freud fosse innamorato di una scienza come la fisiologia, cui si richiamava spesso, anche per definire, per esempio, la libido come energia, le sue assunzioni rientrano in un terreno non scientifico, ma assai più simile a quello della fede religiosa”. Riprova della veduta metafisica presente in Freud, risiede – per l’Andreoli – proprio nel netto rifiuto del dissenso come “eresia” ( p. 120 ). “Freud è stato straordinariamente creativo nell’immaginare una struttura mentale che si curava con la parola. Ma il suo era un costrutto non dimostrabile, tale che, quando trovò allievi come Jung o Adler che gli si opposero, li estromise dal gruppo degli adepti, definendoli eretici. Ed essere eretico vuol dire esattamente non credere a qualcosa. Come accade nelle questioni di fede, chi si oppone viene cacciato: ed è successo. La conclusione cui si giunge è, dunque, che la psicoanalisi non è scienza”.
Tuttavia, alla pagina 99, acutamente Andreoli percepisce qualcosa che – inconsciamente – lo avvicina alla mia tesi: ed è il punto in cui si dice “uno storiografo” della psicologia, “trattandosi di un lavoro che semmai ha la pretesa di avere un significato storico” ( ed anche se, “invece di stare nelle biblioteche”, “manda i pazienti dagli psicoanalisti” ). Dove “avere un significato storico”, detto per sé e la per la propria ricerca, in tanto ha un senso, in quanto accetta ed assume il valore istoristico di partire da un problema, meglio da quel problema, per formulare ipotesi ( diagnosi clinica ) e procedere alla terapia. Ma per fare questo lavoro, occorre sentire il problema, definire la attualità e contemporaneità ideale della storia, quindi percorrere le fasi epistemiche di “problemi – teorie – critiche”. Andreoli ha avuto, per così dire, la soluzione al grande problema dell’ambito predicativo della psicoanalisi sotto gli occhi; ma la ha intravista solo per un attimo, al proprio personale riguardo; senza attingere né sviluppare il punto di definizione generale e filosofica.
Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria – Andria