Passeggiare oggi nel centro di Torino e percorrere alcuni suoi viali che, nel loro andamento, ricordano quelli parigini più caratterizzanti, suscita una sensazione strana. Se una persona potesse, come per miracolo, astrasi dalla dimensione temporale e venire catapultata in questo spazio, senza aver vissuto il recente passato di un lockdown durato più di due mesi trascorsi in isolamento, vivendo l’emergenza sanitaria dovuta al Covid 19, credo che percepirebbe, in egual maniera, qualcosa di diverso ed anomalo rispetto al volto abituale che una città come Torino presenta nella sua quotidianità.
Passando accanto ad una pianta di gelsomino in fiore o ad un giardinetto in cui qualche sparuto bambino gioca, sorvegliato a distanza da un genitore, o due timidi fanciulli si scambiano tenere parole su di una panchina, timorosi di tenersi per mano, si comprende che la normalità, cui si era abituati e che si dava troppo per scontata, non è ancora ritornata. E non bastano certo i negozi di lusso del centro o i coiffeur riaperti a far ritrovare il sorriso, soprattutto sul volto delle persone che non siano più adolescenti. Le si incontra per strada, alcune, magari all’ora dell’uscita dal lavoro, mentre camminano solitarie verso il tragitto di casa, altre mentre fanno movimento o running in centro (magari per cercare di mantenersi in forma o forse per esorcizzare, attraverso questa attività, paure accumulate in mesi di isolamento e di timore del contagio).
Le persone cosiddette di mezza età (anche se il termine non è, forse, quello più appropriato), penso siano, in effetti, quelle che, almeno ad osservarle camminare per strada, pur con le dovute eccezioni, quelle che appaiono meno aggregate e più preoccupate. Il sorriso lo si coglie più evidente, invece, sui volti dei giovani, spesso studenti che hanno a disposizione del tempo libero dallo studio e che ne approfittano per ritrovarsi e distrarsi per passeggiare in centro e guardare qualche vetrina.
La sfida di affrontare un evento traumatico, quale quello che è stato rappresentato dalla pandemia da Coronavirus, ha richiesto la messa in campo di energie e di capacità che in molti di noi erano nascoste e che non eravamo forse neanche così consapevoli di possedere. Tra queste soprattutto la cosiddetta “resilienza”, che ci ha posti in un atteggiamento attivo di cambiamento di fronte alle difficoltà da affrontare nell’emergenza, riorganizzandoci a partire proprio dalla quotidianità.
Oggi, nella cosiddetta Fase 2, è richiesta, soprattutto, in un periodo di graduale riapertura al mondo, ma ancora di convivenza con il virus, flessibilità e capacità di mettersi in ascolto delle proprie emozioni, senza reprimerle. In questo credo che i giovani siano molto più avvantaggiati rispetto agli adulti, perché meno strutturati in schemi preordinati di tipo sociale o borghese e più aperti, come è tipico dell’età che stanno vivendo. Osservandoli camminare per strada, la sensazione che ho percepito è che abbiano saputo mettere in campo, pur in un momento difficile come quello che hanno trascorso nel lockdown ( di lontananza fisica dalla scuola e di lezioni online), una rinnovata capacità di relazioni umane e di solidarietà. La capacità naturale propria dei giovani e giivanissimi di creare gruppi e stare in gruppo, se sicuramente può far paura oggi in una fase 2 a molti governanti, giustamente preoccupati di far osservare il distanziamento, può essere valutata come un valore autentico di gettare ponti verso l’altro e verso il prossimo, come una sfida che oggi essi lanciano al mondo adulto che, da questo lockdown, sta uscendo più impaurito rispetto al passato e, spesso, più chiuso in se stesso e meno solidale.