In questi giorni di forzata reclusione, con le uscite consentite per ‘comprovate esigenze lavorative (e che fortuna, di questi tempi, avere un lavoro ed un lavoro che, dopo anni, mi piace ancora!), o per ‘spese necessarie’ mi trovo a riflettere in modo più ‘lento’, ma peculiare sul mio lavoro, avvertendo più che mai sulle mie spalle il peso della sofferenza altrui.
La restrizione delle visite ambulatoriali ai casi non differibili, proprio per evitare le uscite da casa e limitare il più possibile i contatti interumani, sono, nella migliore delle ipotesi, sostituite da colloqui telefonici o via Skype.
Il Centro Diurno, notoriamente luogo di assembramento, ma in cui si può scorgere la tenerezza nei corpi vicini, le relazioni nate in un contesto difficile, in cui si sta mano nella mano per farsi coraggio, ora sono rimandate a data da destinarsi. Tutto questo è sicuramente giusto per cercare di arginare un’epidemia, soprattutto nel caso dei nostri pazienti più gravi, tra i quali è praticamente impossibile mantenere una distanza di sicurezza. Ma cosa provano loro? Riporto alcune testimonianze nel mio ambulatorio: ”Dottoressa, non possiamo proprio darci la mano?”, ”Dottoressa, riesco ad intuire il suo sorriso, anche dietro la mascherina…lei cerca di sorridere con gli occhi”. E via Skype mi capita sovente di vedere le mani di qualcuno che sfiorano il vetro del pc, nell’intento di toccare le mie mani. Ed io provo a nascondere nei miei occhi le lacrime che mi attanagliano il cuore.
Ai nostri pazienti è negato già tanto, tutto in alcuni casi. E’ negata una famiglia, che non hanno o che li rifiuta, è negato un lavoro, spesso sostituito da piccoli inserimenti lavorativi risocializzanti. I nostri pazienti, molti di loro, ma tutti noi, in definitiva, viviamo attraverso il contatto interumano.
I nostri pazienti, più di noi, vivono con l’espressione del loro corpo, più che attraverso la parola. Ed ora un virus, un nemico invisibile, ma vissuto in modo ancora più persecutorio da coloro che soffrono di disturbi paranoici, e ansiogeno in chi ha fobia di ogni cosa,li distanzia gli uni dagli altri.
Durante i colloqui in ambulatorio cerco di spiegare loro che la mascherina che indosso, la metto per proteggere loro, non me, che serve se fossi io a tossire e a starnutire e, quindi ad evitargli un possibile contagio. Potrei essere io infetta ma asintomatica. E qualcuno, nella sua semplicità, sostiene che sarebbe impossibile, perchè si vede che io sono ‘sana’, come se il nemico invisibile, quell’unico maledetto filamento di RNA potesse, miracolosamente, essere distinto ad occhio nudo. I nostri pazienti, i più gravi vivono spesso ai margini della società, non sempre hanno una casa, oltre che una famiglia; hanno le cure che un servizio sanitario pubblico ridotto all’osso, può ancora offrire loro. Certo quasi tutti quelli che vediamo in ambulatorio non potrebbero permettersi una sanità privata.
Inorridisco, quindi, da essere umano e da psichiatra, quando leggo un articolo pubblicato su Avvenire.it di martedì 25 Marzo, in cui è scritto che negli USA più di dieci stati hanno scelto a chi destinare i respiratori, in caso ci fosse bisogno di respirazione assistita. E’ la selezione del più forte, già di per sé avvantaggiato dalla natura: chi, invece, è portatore di un grave handicap fisico o psichico non ha il diritto di respirare. Bisognerà valutare il livello di abilità fisica o intellettiva prima di intervenire. Nel documento ”Scarce Resource Management” si legge che ”i disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto alla respirazione”. Insomma, ultimi fra gli ultimi, fino all’ultimo respiro.
Rifletto, allora, sul concetto di “Eugenetica” che deriva dal greco “ευγενής”: buon nato, di buona razza. Il termine venne utilizzato per la prima volta nel 1833 dall’inglese Sir Francis Galton che, per approfondire questa nuova materia, fondò un istituto nell’Università di Londra.
Cosa è questa disciplina che dal prefisso, sembrerebbe promettere qualcosa di buono? E’ una disciplina medica che si prefigge di favorire e sviluppare le qualità innate di una razza, avvalendosi delle leggi dell’ereditarietà genetica.
Inizialmente, essa si sviluppò perlopiù nell’area anglosassone, ma successivamente, lo stato dove se ne fece un uso sregolato fu la Germania. Durante il perdurare della dittatura nazista, Hitler utilizzò le pratiche eugenetiche allo scopo di creare una razza superiore e pura, la razza ariana.
All’epoca si definivano due tipologie di pratiche eugenetiche: “l’eugenetica positiva”, per la riproduzione di soggetti in condizioni fisiche eccellenti e l’ “eugenetica negativa”, attraverso la quale si preveniva la nascita di soggetti affetti da malformazioni o malattie ereditarie, per mezzo di pratiche, come l’aborto legalizzato, le sterilizzazioni di massa e l’infanticidio. La “Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie”, fu emanata nel 1933 e fu dato l’avvio ad una sterilizzazione di tutte le persone affette da determinati disturbi psico-fisici considerati ereditari.
Nel 1939, poi, tale legge fu sostituita dal Progetto Aktion T42, sospeso nel 1941 grazie alla Chiesa, ma, nonostante ciò, nei campi di sterminio proseguirono le esecuzioni di massa, per ricercare una razza superiore, in base ad un nuovo testo di legge Aktion 14F13.
E’ però opportuno puntualizzare che questa idea delirante della eugenetica, di creare una razza preminente, attraverso la sterilizzazione di uomini e donne che non potessero dare vita ad una prole sana, non si ritrova solo nelle ideologie naziste, in quanto il primo paese ad attuare una campagna per selezionare la razza fu l’America. Nel 1924 gli Usa emanarono la Legge “Johnson-Reed”, altrimenti detta “Immigration Restriction Act”, con la quale si cercò di stabilire una distinta identità americana, favorendo alcune razze piuttosto che altre, al fine di stabilizzare la composizione etnica della popolazione.
Torneremo a quei tempi, oggi che il mondo continua ad essere appannaggio del più forte?