Coloro che sostengono la legge contro l’omotransfobia «vogliono affermare per via legislativa, un principio antropologico molto complesso e controverso, quello secondo il quale l’omosessualità e la transessualità, e forme di ‘parafilia’ quali il travestitismo, e temi a questi connessi, come la rivendicazione dell’omogenitorialità debbano ottenere un riconoscimento non solo sociale, ma giuridico, come mere ’varianti’ delle pulsioni sessuali e identitarie umane». Quanto ha scritto un autorevole filosofo del diritto, Francesco D’Agostino, nell’articolo Ciò che la legge proprio non può (‘Avvenire’ 7 luglio u.s.) può anche essere vero ma il problema formalmente è un altro: è davvero necessaria una legge che tuteli la dignità di persone e di gruppi, spesso vittime di aggressioni fisiche e/o verbali? Sul tema sono intervenuti studiosi di diverso orientamento—da Paolo Becchi a Stefano Ceccanti, da Laura Palazzani a Vladimiro Zagrebelsky, da Cesare Mirabelli al cardinale Bagnasco—con motivazioni ponderate. In sostanza, al centro del dibattito c’è il problema della libertà di opinione, che per i favorevoli alla legge, non corre alcun rischio. «L’Italia–ha scritto Ceccanti ne La legge contro l’omotransfobia: vi spiego perché non è liberticida (‘Il Riformista’ del 2 luglio) —afferma chiaramente una linea divisoria tra idee consentite e comportamenti non ammessi. Le parole, cioè, di per sé non sono pietre. |…| Le parole perseguibili possono essere solo quelle che creano un pericolo chiaro e presente di trasformarsi in pietre». Sennonché, come hanno fatto osservare Paolo Becchi e Giuseppe Palma–La legge sull’omofobia è liberticida, ‘Libero’25 giugno-, non è superfluo chiedersi: «Quali frasi o comportamenti costi-tuiranno reato? Se una persona sostiene in pubblico che considera sbagliato acquistare bambini prodotti da uteri in affitto sta già discriminando la coppia omosessuale che lo ha comprato? Se la stessa persona è contraria all’adozione alle coppie omosessuali e fa parte di un’associazione si configura questo come reato? Come si distinguono le eventuali discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere? In cosa consistono esattamente questi nuovi reati?» I favorevoli affermano che anche dopo l’approvazione della legge ci si può battere contro il matrimonio gay, contro l’adozione gay, contro l’utero in affitto. Già ma quali argomenti saranno poi consentiti? Se la riprovazione dell’omosessualità fosse giustificata con la condanna di Dante (“matta bestialitade”) saremmo d’accordo tutti nel prenderne le distanze, ma se si richiamasse a concetti come ‘normalità’, ’inclinazioni morbose’ et similia parleremmo tutti di un attentato alla dignità degli individui? E chi dovrebbe stabilire quando le parole diventano pietre? Nel 2009, il cantautore Giuseppe Povia presentò al Festival di Sanremo il brano Luca era gay (Premio Mogol come miglior testo dell’anno). Ne nacque un parapiglia con Franco Grillini che dalla platea protestò contro il cantante (non era mai capitato) e con la patetica interrogazione (ovviamente respinta) di Vittorio Agnoletto contro Povia omofobo alla Commissione UE. Se la legge Zan fosse stata in vigore la faccenda sarebbe finita in Tribunale. E’questa l’Italia che vogliamo? Sull’altro versante, quello dei nemici giurati di Zan, però, la difesa della libertà di espressione diventa misconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Patrizia Fermani, ad es, sul blog ‘Ricognizioni’, —Legge sull’omofobia: come e perché sul banco degli imputati finisce la libertà, 2 giugno—non esita a scrivere che la nuova legge «significherà non poter licenziare la baby sitter lesbica o il maestro di pianoforte in sospetto di pederastia». E perché mai, viene da chiedersi, si dovrebbe perdere un lavoro per il proprio orientamento sessuale o per un semplice ‘sospetto’ di pederastia? Con lo stesso criterio, andrebbero interdetti l’insegnamento e qualsiasi altro impiego a contatto col pubblico a una ninfomane o a un sexalcoholic! La Fermani, che fa parte del circolo di Civitella del Tronto—la cittadina abruzzese da anni luogo di ritrovo degli antirisorgimentisti, dei filoborbonici, dei cultori di Mgr Lefebvre—condanna «il presupposto ‘filosofico’» dell’unicità del genere umano che non prevede distinzioni di sorta» di tipo razziale, nazionale, religioso sessuale. Già è questo il punto: il retaggio più prezioso dell’illuminismo liberale sta proprio nel fatto che i nostri ruoli sociali (come compratori al mercato, come funzionari pubblici, come candidati a un impiego, come tifosi e come viaggiatori che hanno pagato il biglietto) sono ‘astratti’ dai nostri gusti morali, estetici, dalle nostre credenze religiose e politiche. È la dimensione della ‘società’ accanto alla quale resta da sempre quella della ‘comunità’, di una privacy più o meno estesa, nella quale la sfera pubblica non ha alcun diritto di interferire. Per una certa sinistra, invece, le regole che valgono per la prima dovrebbero valere anche per la seconda: non basta dire che le prestazioni di un individuo vanno giudicate a prescindere dalla sua razza, dai suoi gusti sessuali, occorre che ci siano stima e apprezzamento per le diverse appartenenze e che, pertanto, ci si esprima su di esse in termini politically correct. Zagrebelsky, intervenendo in maniera equilibrata su L’omofobia e la legge necessaria (‘La Stampa’ 19 giugno), ha esaltato l’Islanda per aver condannato «una persona che aveva usato espressioni ingiuriose, dicendosi disgustata da una iniziativa di educazione sessuale disposta dal governo nelle scuole», e affidata, come vorrebbe Grillini, ad associazioni del tipo arcigay. Se ho capito bene, la libertà di dissenso va garantita anche a Reykjavík ma l’islandese deve attenersi a un frasario ufficiale non offensivo della dignità dei gay. In realtà, l’utilità di questa specifica legge contro la violenza mi sfugge. Come ha detto bene Laura Palazzani, «la violenza va sempre punita sia nei confronti di uomini, di donne, di transgender, sia di omosessuali che di eterosessuali allo stesso modo». E per questo «le leggi son» anche se non si è soddisfatti di «chi pon mano ad esse».
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