Nel dicembre scorso al Centro Pannunzio di Torino abbiamo presentato il libro “E Sciascia che ne dice? Il catalogo è questo!”. Il libro, pubblicato dalla editrice Olschki, curato da Francesco Izzo, presidente dell’associazione amici di Leonardo Sciascia, è incentrato sul rapporto tra  due grandi artisti del ‘900: Leonardo Sciascia e Mino Maccari. Un rapporto sconosciuto, ma lungo e intenso, ricostruito grazie ad una fitta corrispondenza tra i due, con un mannello di lettere che vanno dal 1969 al 1978. E poi ci sono le pagine del “Diario” inedito di Maccari, dove ricorre spesso il nome di Sciascia. E ci sono una serie di disegni, dipinti, schizzi e appunti di Maccari (che in buona parte costituiscono la parte finale del libro), scoperti casualmente e recentemente. Il tutto aiuta a scoprire l’amicizia spumeggiante di due eretici ed eccentrici narratori e protagonisti del ‘900’, entrambi morti nel 1989. Insomma, due grandi personaggi della cultura italiana che nel loro contatto hanno prodotto scintille di fresca intelligenza, di arguzia, di provocazioni. Due personaggi liberi e anticonformisti che hanno in comune molte affinità, in particolare, come si legge nel libro, sono molto in sintonia e hanno comuni radici culturali: filosofia e morale laica, sensibilità per la poesia e le tradizioni territoriali (uno toscano, l’altro siciliano), il passato che pesa sul presente e lo feconda, le scelte radicali e la fierezza del pensiero anarchico. Eppoi, in entrambi, l’insofferenza per le sovrastrutture aristocratiche, per i paludamenti accademici, per le gerarchie arroganti; certo, entrambi sembrano avere in comune anche una certa amarezza esistenziale, gli umori malinconici e il disincanto, ma non il pessimismo; perché in loro c’è sempre qualcosa che brilla, qualche scintilla che scatta e riscatta, e che “salva e redime l’umanità”.

In quella che viene definita “La circolarità delle cose della vita”, forse non è un caso che si sia parlato di Sciascia e di Maccari  al Centro Mario Pannunzio. Perchè in questa circolarità la nostra mente corre indietro nel tempo e si ferma nel 1937 a Caltanissetta, all’istituto magistrale, dov’era giovane studente Leonardo Sciascia e dove insegnava Vitaliano Brancati che in quegli anni, disilluso dal fascismo, aveva cominciato a prenderne le distanze. Brancati aveva lasciato Roma, aveva partecipato e vinto il concorso per insegnare lettere negli istituti superiori e aveva scelto (anzi, vi si era esiliato) Caltanissetta: una vistosa distanza fisica e soprattutto politica e culturale, da Roma e dal fascismo trionfante. E proprio a Caltanissetta aveva ambientato quello straordinario racconto che è “La noia del 1937”. Che ci aiuta a capire del fascismo e degli anni  del fascismo, più di tanti libri di storia e di saggi.

Sciascia non lo ha come insegnante, ma è uno dei pochi studenti che sa che Brancati è uno scrittore; e sa anche che scrive sulla rivista settimanale “Omnibus” di Leo Longanesi. Sciascia, infatti, era forse l’unico studente che acquistava ogni settimana  l’Omnibus, che costava una lira, rinunciando ad una serata al cinema. “Ma ne valeva la pena”, scriveva Sciascia, perché su Omnibus aveva scoperto: Bruno Barilli e Alberto Savinio, gli articoli di Elio Vittorini, i racconti di Caldwell e Saroyan, Dino Buzzati, Alberto Moravia, Eugenio Montale, Arrigo Benedetti, Emilio Cecchi, Corrado Alvaro, Vittorio Gorresio, Indro Montanelli, Mino Maccari, Mario Pannunzio… E Vitaliano Brancati; e su Brancati ecco quello che diceva Sciascia: “Che delizia le lettere di Brancati al direttore … Caro direttore … Ed era come se da quel tessuto di noia che era la nostra vita di ogni giorno, improvvisamente balzasse nel fuoco di una lente, che lo ingrandiva e lo deformava, un particolare della trama, un nodo o una smagliatura. Pensavo: così si deve scrivere, così voglio scrivere!”  E continua ancora Sciascia: “Brancati l’antifascista, il liberale che vedeva negli eccessi ideologici dell’antifascismo, del comunismo, un altro fascismo, l’eterno fascismo degli italiani”. A tal proposito è interessante il libro “Diario Romano” di Brancati, che descrive gli anni del dopoguerra in Italia.

L’Omnibus, dunque, fondato da quel grande personaggio che fu Leo Longanesi, dove scrivevano i migliori giornalisti e intellettuali di quell’epoca, una autentica fucina culturale,  capostipite del settimanale d’informazione italiano; il primo numero uscì il 28 marzo 1937, costava una lira a copia; al suo debutto furono vendute 42.000 copie, nei mesi successivi arrivò a vendere 100.000 copie. Ma con un direttore e un parterre di redattori e collaboratori come quelli non poteva aver vita lunga sotto il fascismo che, infatti, lo fece chiudere il 2 febbraio 1939, per sempre.

E, possiamo dedurre che Omnibus e i suoi eccellenti personaggi che vi scrivevano, abbiano avuto una grande influenza nella formazione civile e letteraria di Leonardo Sciascia, così come, riteniamo, di tanti altri personaggi dell’Italia di allora.

E dunque, su Omnibus scrivevano e lavoravano anche Mino Maccari, con le sue vignette e disegni, e Mario Pannunzio che era collaboratore fisso e critico cinematografico.

Mino Maccari, giornalista, pittore, scrittore, incisore, che nel periodo 1930-1932 fu capo redattore a “La Stampa” di Torino, in quel periodo diretto da Curzio Malaparte.

Mino Maccari che nel 1949 va a lavorare a “Il Mondo” di Mario Pannunzio, come vignettista; il Mondo di Pannunzio: la rivista che per 18 anni fu il punto di riferimento del dibattito politico culturale italiano; Maccari vi lavorò ininterrottamente e per lui fu un periodo fecondo e di grande maturazione artistica.