Il 9 maggio 1978 l’Italia assisteva attonita a due tragedie che avrebbero cambiato, nel breve e nel lungo periodo, la storia del nostro Paese: il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro e l’uccisione del giornalista Peppino Impastato per mano della mafia siciliana.

Quella mattina le Br fanno ritrovare il cadavere di Aldo Moro in via Caetani, emblematicamente vicina sia a Piazza del Gesù che a via delle Botteghe Oscure, a due passi dalle sedi storiche – rispettivamente – della Dc e del Pci, ponendo fine nel peggior modo possibile ai 55, lunghissimi, giorni del sequestro (“Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”, sentenzierà il comunicato n. 9).

Così, dal palco di Piazza San Giovanni a Roma, dirà il 10 maggio a nome della Federazione unitaria Luciano Lama: “Anche oggi, come il 16 marzo, Roma è qui in questa piazza per esprimere alla famiglia Moro e alla Democrazia cristiana la solidarietà dei lavoratori e per ribadire con fermezza incrollabile la volontà del nostro popolo di difendere lo Stato democratico, le nostre libertà […] Chi era Aldo Moro? Egli era il capo di un partito col quale il movimento sindacale in questi decenni ha avuto anche momenti di contrasto e di lotta. Era uomo di partito e uomo di Stato, era, io credo, un moderato nella concezione politica e nel carattere, ma un moderato illuminato da una viva intelligenza e sensibilità sulle trasformazioni in atto nella società italiana, attento e lungimirante nel prevedere gli sviluppi dei processi che si svolgevano anche nel profondo di questa società. […] Noi sappiamo che le Brigate Rosse colpiranno ancora e potranno colpire uomini politici, sindacalisti, cosa che hanno già cominciato a fare, e dirigenti di impresa e poliziotti. La lotta contro il terrorismo non finisce oggi, anche se il miglioramento dell’efficienza dell’apparato dello Stato dovrà rendere più spedita l’azione contro le forze eversive. Ma se il paese rinserrerà le sue file, se il destino d’Italia sarà preso nelle proprie mani da ogni lavoratore, l’esito finale di questa dura prova è sicuro: le Brigate Rosse potranno ancora distruggere e uccidere, la loro barbarie inumana potrà farci ancora soffrire, ma essi non prevarranno”.

Mentre l’Italia è sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro, a Cinisi – piccolo paesino della Sicilia affacciato sul mare a 30 chilometri da Palermo – muore dilaniato da una violenta esplosione il giornalista Peppino Impastato.

Nato il 5 gennaio del 1948 da una famiglia mafiosa, durante gli anni del liceo, nel 1965, Giuseppe – per tutti Peppino – aderisce al Psiup e fonda il giornalino «L’idea socialista». Su questa pubblicazione racconta, tra l’altro, la marcia della protesta e della pace voluta da Danilo Dolci nel 1967.

Il giornale viene sequestrato dopo pochi numeri e Peppino, lasciato il Psiup, inizia a collaborare con i gruppi comunisti locali, occupandosi – tra l’altro – delle battaglie dei disoccupati, degli edili e soprattutto dei contadini, che si vedono privati dei loro terreni per favorire la realizzazione della terza pista dell’aeroporto di Palermo proprio a Cinisi.

Dopo aver dato vita al circolo «Musica e cultura», con il boom delle radio libere Peppino decide di fondarne una propria a Cinisi: «Radio Aut». Nel programma «Onda Pazza» prende in giro i capimafia e i politici locali: il suo bersaglio preferito è don Tano Badalamenti (soprannominato Tano Seduto), erede Del boss Cesare Manzella ed amico di suo padre Luigi.

Nel 1978  decide di candidarsi alle elezioni comunali del suo paese nella lista di Democrazia proletaria. Assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio, risulterà comunque eletto il 14 con 260 voti (anche la madre si reca a votare, violando il lutto che la vuole reclusa in casa).

Stampa, forze dell’ordine e magistratura considerano in un primo momento la sua morte conseguenza di un atto terroristico suicida.

“I ricordi di quel periodo sono terribili – racconterà Giovanni Impastato, fratello di Peppino – È stato anche il giorno della morte di Aldo Moro. Per noi è stato un fulmine a ciel sereno, non ce l’aspettavamo. Ricordo che siamo anche stati trattati male dagli investigatori, che hanno perquisito le nostre abitazioni. Ci hanno preso per dei terroristi. Verso di noi sono stati brutali”.

Contemporaneamente, però, comincia a delinearsi un’altra storia e la matrice mafiosa del delitto viene individuata anche grazie all’attività di Giovanni e di Felicia Bartolotta che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e rendono possibile la riapertura dell’inchiesta giudiziaria (le indagini si concluderanno solo nel 2002, con la condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti, poi deceduto nel 2004. “È il primo compleanno che vivo con la pace nel cuore”, dirà il 24 maggio 2002 mamma Felicia, prima donna in Italia a costituirsi parte civile in un processo di mafia, festeggiando il suo 86° compleanno).

Scegliendo come giorno l’anniversario dell’uccisione di Moro, con la Legge numero 56 del 2007, la giornata del 9 maggio è stata dedicata a «tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice».

“Questo giorno – diceva il 9 maggio 2018 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del 40° anniversario delle due morti – vuol essere segno autentico di una comunità che ricorda gli eventi, lieti o dolorosi, che ne hanno attraversato la vita, che sa guardare al futuro proprio perché capace di collegarsi alle proprie radici e di condividere, attraverso momenti difficili e anche dolorosi, un’ideale di persona e di giustizia. Il nostro Paese è stato insanguinato, dalla fine degli anni Sessanta, da aggressioni terroristiche di differente matrice, da strategie eversive messe in atto, talvolta, con la complicità di soggetti che tradivano il loro ruolo di appartenenti ad apparati dello Stato, da una violenza politica che traeva spinta da degenerazioni ideologiche, persino da contiguità e intrecci tra organizzazioni criminali e bande armate. […] Non dimenticare significa anche fare i conti con questa storia che ha attraversato la vita della Repubblica e ha messo a dura prova quella costruzione democratica che il popolo italiano è riuscito a erigere dopo la Liberazione e che la Costituzione ha reso un patrimonio di valori, non soltanto di norme giuridiche.

Abbiamo appreso che la democrazia non può dirsi mai conquistata una volta per tutte.

Abbiamo appreso che la democrazia vince quando non rinuncia a se stessa, ai principi di civiltà che la sostengono, alla libertà, al diritto e al rispetto dei diritti.

Abbiamo appreso – parole di un’attualità disarmante! – che ci sono momenti in cui l’unità nazionale deve prevalere sulle legittime differenze: è stata anzitutto l’unità del popolo italiano a sconfiggere la minaccia terroristica […] Anche in questa stagione, la democrazia può e deve difendersi senza rinunciare ai propri valori, alla propria civiltà, all’idea di persona che si fonda sui diritti inviolabili […] saremo ancora più forti se saremo capaci di far crescere la consapevolezza comune, e di assumerci la responsabilità, che come europei abbiamo, di favorire la pace e di costruire un equilibrio migliore nel pianeta. Far memoria è parte di questa preziosa opera costruttiva”.

Una memoria viva che si traduca in impegno, anche oggi, soprattutto oggi.

Ilaria Romeo