Il Centro Pannunzio avrebbe dovuto deporre in onore di Vittorio Emanuele II, a Palazzo Carignano dove nacque il 14 marzo 1820, una corona d’alloro; il Centro, seguendo le idee del direttore del “Mondo”, ha sempre sentito  un forte legame ideale con il Risorgimento e in modo particolare con Cavour. Insieme a Rosario Romeo e Adolfo Omodeo e allo stesso Benedetto Croce, sentimmo la necessità di difendere le ragioni del Risorgimento rispetto alle critiche dell’ “orianesimo” giornalistico gobettiano e al marxismo di scuola gramsciana, volti a ridurre il moto risorgimentale a conquista regia.
Per questi motivi avremmo voluto onorare il Re che contribuì ad unire l’Italia dopo secoli di divisioni, facendo della sua Casa il fulcro su cui fare leva, per realizzare il processo di unificazione, come ben vide Giuseppe Garibaldi,  il quale abbandonò Mazzini ai suoi sogni rivoluzionari e come tanti repubblicani, collaborò con la Monarchia Sabauda. 
Vittorio Emanuele II non ebbe la tempra di un Emanuele Filiberto e di un Vittorio Amedeo II, ma creò il nuovo Stato unitario, vincendo mille resistenze e affrontando due guerre per l’indipendenza. L’Unità d’Italia aveva tanti nemici e l’ impresa, riconobbe Salvemini, era davvero ciclopica.
Stando ad alcuni suoi contemporanei, non fu un uomo di particolari qualità, anche se fu un ottimo e coraggioso soldato, ma le testimonianze occasionali possono dare l’ idea dell’uomo privato,  non del Re(di cui debbono occuparsi gli storici) che prese il Piemonte nel 1849 pesantemente sconfitto a Novara, e giunse fino a Roma Capitale e fece salire la Sinistra di Depretis al potere, con il ricambio della classe dirigente risorgimentale. 
Vittorio Emanuele, non particolarmente predisposto agli studi, al contrario di suo padre Carlo Alberto, venne educato militarmente secondo le tradizioni sabaude e il modello a cui guardarono  i suoi precettori era ovviamente quello del re assoluto. Carlo Alberto era rimasto ondeggiante tra i moti carbonari del 1821 e il Trocadero, dove combatté i liberali spagnoli ,anche se nel 1848 si decise a concedere lo Statuto, a dichiarare guerra all’Austria e a far suo il vessillo tricolore  italiano, in precedenza una bandiera repubblicana è perfino giacobina. Carlo Alberto nel suo periodo di regno realizzò anche una politica di riforme degna di essere ricordata, come sosteneva Narciso Nada, lo storico degli antichi Stati italiani prima dell’Unita’.
  Vittorio Emanuele, che aveva una madre e una moglie appartenenti alla famiglia degli Asburgo, ereditò all’ improvviso un trono dopo l’abdicazione di Carlo Alberto e di fatto fu il primo Re costituzionale che sperimentò lo Statuto. Non fu un’ esperienza facile e l’aver avuto un capo del Governo come Massimo d’Azeglio gli giovò sicuramente molto. Non è vero che fu accondiscendente verso l’Austria, con cui riuscì a trattare una pace meno onerosa di quella prevista a Vignale nell’incontro con Radetzky. Fu elemento di equilibrio tra un Parlamento riottoso alla pace e l’Austria, che voleva occupare parte del territorio piemontese, tra cui la fortezza di Alessandria. Il Proclama di Moncalieri e l’iniziativa diplomatica di d’Azeglio furono passaggi importanti per superare difficoltà apparse in alcuni momenti insormontabili. Il fatto incontrovertibile è che egli non revocò lo Statuto e fu fedele al giuramento prestato, mentre tutti gli altri principi italiani tornarono sui loro passi e rinnegarono le Costituzioni concesse. Fu d’ Azeglio a considerare il Re un galantuomo, poi i cortigiani, i retori, gli agiografi esagerarono nel mitizzarlo. Ma resta indubbio che il Re seppe  circondarsi di uomini straordinari come d’Azeglio e soprattutto Cavour, con cui ebbe anche momenti di scontro; fu sostanzialmente fermo nel sostenere il processo di laicizzazione di un Piemonte che aveva al suo interno nemici nella Chiesa locale e al suo esterno nemici come il Papa e la Chiesa Romana.  Riuscì ad attrarre il consenso di uomini come Francesco  De Sanctis, Daniele Manin e soprattutto Garibaldi, che fece suo il motto “Italia e Vittorio Emanuele” .
Accolse a Torino  esuli provenienti da tutta Italia,  che furono liberi di svolgere la loro attività politica . Garantì nel territorio del suo Regno la libera stampa ed anche la satira. 
Sacrificò una figlia alla causa italiana, destinandola ad un matrimonio infelice con Girolamo Bonaparte e rinunciò alla culla della sua Casata, cedendo la Savoia alla Francia per poter affrontare l’ Austria a fianco dei Francesi nel 1859; nel 1864 accettò di trasferire la capitale da Torino a Firenze, cominciando così  a diventare un  vero Re di tutti gli Italiani;  nel 1869, con la nascita a Napoli del nipote,riuscì in quell’opera di avvicinamento agli ex borbonici, che radicherà profondamente la Dinastia sabauda al Sud, come dimostrò persino il Referendum del 2 giugno 1946, malgrado una guerra perduta e il Fascismo. 
Riuscì, anche per i suoi rapporti con le dinastie regnanti europee -malgrado le sue non eccelse  doti diplomatiche- a rinsaldare le sorti della neonata Italia. La Regina Vittoria ebbe una buona impressione di lui, malgrado lo considerasse piuttosto “ruspante”.  Nel 1870 entrò in Roma finalmente capitale del nuovo Regno, senza urtare il Papa come volevano gli anticlericali ed i massoni. Con la legge delle Guarentigie furono regolati in modo esemplare i rapporti con la Chiesa Cattolica, garantendole indipendenza assoluta, come riconobbe Arturo Carlo Jemolo. Si andò persino oltre il “Libera Chiesa in Libero Stato ” di Cavour. 
Il fatto che gli piacessero le donne fu un particolare di colore del tutto  insignificante che di fronte ad un  serio ragionamento storico, non assume nessuna rilevanza anche se accende la curiosità degli incolti. Riuscì ad essere un Re popolare ed anche amato e questo resta invece un fatto che non si può ignorare o sminuire. 
Dei quattro sovrani d’ Italia fu sicuramente il migliore e seppe portare a termine la sua missione. Non fu solo fortuna, come alcuni faziosi superficiali hanno sostenuto. Cosi come non fu solo legato soprattutto  all’ iniziativa del Re il successo del moto risorgimentale, come ritennero gli agiografi,  a partire da Vittorio Bersezio.
Anche Francesco Cognasso fu troppo monarchico per dare giudizi distaccati. Il repubblicano Luigi Salvatorelli seppe invece  trovare un punto di equilibrio che merita di essere indicato, come un esempio di rara  capacità  di riflessione  storica  e di distacco critico. Di questo mi parlava il genero di Salvatorelli Carlo Casalegno,  commentando  con me un suo articolo del 1961 proprio su “La Stampa”  .
Oggi  appaiono invece  miserevoli le pagine di Denis Mack Smith .Già tanti anni fa un cattolico giacobino come Ettore Passerin d’Entreves mi invitava a diffidare di lui che considerava non uno studioso ma <<un pasticcione>> . Usò proprio questa definizione sprezzante. La sua biografia di Vittorio Emanuele è aneddotica, superficiale, faziosa, assolutamente non scientifica, meramente divulgativa. 
Il professore di Storia Medievale di Vercelli Alessandro Barbero, chiamato a scrivere oggi  sul quotidiano “La Stampa”, ancora una volta ha dimostrato di non capire cosa sia la  vera Storiografia, confondendola sovente  con i pettegolezzi e con le battute ad effetto. Le sue argomentazioni non meritano risposte, perché sono prive di un reale ragionamento storiografico e prenderle in considerazione, significherebbe abbassare il discorso a quello del gossip. Barbero è un medievalista che  sconfina sempre su terreni non suoi. 
L’aver poi definito Vittorio Emanuele un populista che sarebbe piaciuto oggi, in tempi di grande volgarità politica e non solo, rivela l’incapacità di contestualizzare nel suo tempo un personaggio storico, che è sempre è solo  figlio della sua epoca . Il rapportarlo all’oggi è un errore che uno storico dovrebbe lasciare ai giornalisti incolti, ai giornalisti televisivi che non sanno le regole a cui devono sottostare gli storici. “La Stampa” aveva uno studioso come Umberto Levra, illustre storico del Risorgimento e Presidente del Museo Nazionale del Risorgimento,  a cui chiedere un giudizio che sarebbe stato sicuramente equo e privo di partigianeria. Aveva anche un legame con la storia del giornale perché Levra è stato allievo di Alessandro Galante Garrone. Non sono bastate le lucide riflessioni storiche di Gianni Oliva a riequilibrare le scorribande pseudo – storiche del vercellese, perché il suo astio superficiale, degno di Dagospia, non poteva a priori essere oggetto di un confronto storico. I fatti costituiscono la Storia, le frasi fatte e il dileggio sono quanto di più lontano ci sia dalla ricerca storica.
Mi spiace di aver dato ospitalità negli anni Ottanta del secolo passato al giovane Barbero al Centro “Pannunzio”. Lo sentii una sola volta e non mi piacque per il suo stile disinvolto, arrogante e televisivo ante litteram. Mi sembrava un provinciale che voleva “epater le bourgeois”. Con l’articolo di oggi, nel quale confronta Vittorio Emnuele II con Salvini ed i populisti,  Barbero è andato oltre sé stesso, imboccando una via senza ritorno.