E’ stato ripreso tante volte in ermeneutica filosofica il Coro da “The Rock” di Thomas Stearns Eliot,  magari per adattarlo al mondo dell’informazione attuale, come nell’articolo “L’apprendista digitale” di Massimo Chiriatti, il quale opportunamente distingue tra “retrodizione” e “spiegazione”, quale alternativa epistemologica affine a quella tra “spiegazione causalistica” dei fatti e “comprensione storica” degli stessi, ‘determinismo’ e ‘storicismo’ ( l’ italiano e vichiano, non nel senso criticato da Popper, di profezia e filosofia della storia ). La “comprensione” è basata sull’elemento umano; sul “problema” del presente che fa sorgere la domanda di luce sul passato e interviene, così, a modificare la interpretazione dei fatti storici. Perciò, la storia idealmente è sempre “storia contemporanea” ( v. Teoria e storia della storiografia di Croce, 1915-1917 ). Gustav Droysen parlava di “die Frage”, della “domanda”, tesa a inaugurare il processo della interpretazione storica  ( nella Historik ). I dati, la congerie dei fatti, sono “cronaca” non storia, da “historia”, *’idein’, ‘conoscenza’, ‘visione’, quindi ‘comprensione’. Addirittura, già Tucidide, nella sua Guerra del Peloponneso, primo classico di ‘storia contemporanea’, dimostrava che lo stesso ordinamento delle fonti, ossia la loro raccolta e disposizione, presupponeva pur sempre una interpretazione delle stesse fonti.

Per tornare a Eliot e al suo ‘Coro dalla Rocca’ ( secondo alcuni: ‘Coro della Roccia’ ), i celebri versi letteralmente recitano:   “ Where is the life we have lost in living ?

                           Where is the wisdom we have lost in knowledge ?                 

                      Where is the knowledge we have lost in information ? “

E sono i versi, cui il Chiriatti aggiunge ora: “Dov’è l’informazione che abbiamo perduto nei dati ?”

( apponendolo al secondo e terzo degli interrogativi eliotiani ).

Si noti che il primo verso originale si raccoglie in un gerundio: “in living”, quasi a voler dire sì, “vivendo” ( versione Donini ) ma anche “nella successione delle esperienze”, nella “successività empirica” ( kantianamente ). Il secondo e terzo assillo sono deposti invece nei due sostantivi: “in knowledge” ( come dire, nella “quantità delle conoscenze” ) e “in information” ( ossia, “nella mole delle informazioni” ). Sì che la versione-interpretazione, che privilegio del passo, è la seguente:

                             “Dov’è la vita che abbiamo perso nel susseguirsi delle esperienze ?

                 Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella grande mole di conoscenza ?

             Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nella congerie delle informazioni ?”

La triplice ( o: quadruplice, per l’integrazione epistemologica ) interrogazione problematica è da riproporsi ancor oggi, a proposito della querelle tra conoscenze e competenze nel mondo della scuola, della nuova didattica, dell’avviamento al “mondo del lavoro”; quando, all’improvviso, una emergenza sanitaria, economica, civile e culturale è intervenuta a farci riflettere sull’ “essenziale”, riportando alla mente il significato autentico della parola del poeta. Dove l’essenziale non è – si badi – la mera “semplificazione” delle prove d’esame e dei percorsi oggetto di preparazione e successiva valutazione; ma, piuttosto, l’ “Appigliamoci all’Essere”, di cui parlava il maestro ‘normalista’ di Giovanni Gentile, il conversanese Donato Jaja, in una dimenticata collaborazione giornalistica per il “Caronte” del 1890, periodico barese fondato e diretto dal De Nicolò. “Un’autorevole parola” (  Tornetti, Viù – Torino, 15 settembre 1890 ): “L’essere è difficile, facile è parere; appigliamoci all’essere. Per me ogni atto che non sia rivolto a produrre questo, è o inutile o dannoso” ( v. La provincia e l’umanità. Saggi di storia intellettuale e civile, Cadmo, Roma 1982, pp. 114-127; già in “Realtà del Mezzogiorno”, di Guido Macera, XXI/7-8, luglio-agosto 19812, pp. 677-690 ).

Perciò, anche il passato è ‘aperto’, perché soggetto ai fasci di luce sempre nuovi che la problematicità dell’interrogazione getta di continuo su di essi ( v. Raffaello Franchini, Teoria della previsione, Napoli 1972; in parte, lo stesso Popper di Congetture e confutazioni, Il Mulino 1972  ).

Porrei attenzione nel concludere, con l’alto dirigente informatico: ‘Il passato è finito; il presente è la fine del finito e l’inizio dell’infinito; il futuro è infinito’. Così si spazializza il tempo, dividendolo in segmenti allineati ( giusta la critica di Henri Bergson ). In effetti, esistono i momenti-forme della conoscenza ( Pantaleo Carabellese e Rosario Assunto, sulla base di Agostino ): presente del passato, presente del presente, presente del futuro; cioè, memoria, intuizione, attesa; i valori del tempo nelle similitudini dantesche delle tre Cantiche, Inferno ( III, 112-115: “Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie, / similemente il mal seme d’Adamo”) – Purgatorio  ( II, 10-12: “Noi eravam lunghesso mare ancora, / come gente che pensa a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora” ) – Paradiso ( XXXIII, 58-66: “Qual è colui ce somniando vede, / che dopo il sogno la passione impressa / rimane, e l’altro a la mente non riede, / cotal son io, ché quasi tutta cessa / mia visione, ed ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa./ Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie lievi/ si perdea la sentenza di Sibilla” ).

Pure, ancora oggi, l’appello illuminante di Eliot, al quale molto dobbiamo per tutti i suoi “Quartetti” e saggi, tra cui gli Appunti per una definizione della cultura ( 1945 ), trova inaspettata conferma e splendida prosecuzione con la tarda modernità, quando il problema è riproposto nelle Lezioni americane ( “Six Memos for next Millennium” ) di Italo Calvino; con cui possiamo procedere.

“Dov’è la consistenza che abbiamo perso nella varietà di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità ?” ( v. la edizione garzantiana del 1988, poi nelle Opere ).

Si badi al fatto che la sesta lezione, la “Consistenza” ( non: la “coerenza”, come intendono alcuni comunicatori di massa ), non fu mai trattata da Calvino, che non riuscì a completare il suo corso per la Università di Harvard; laddove furono dispiegate egregiamente con riferimenti letterari, estetici. simbolici e filosofici le altre cinque. E sono: “Lightness”; “Quickness”; “Exactitude”; “Visibility” e “Multiciplity”. La “Consistency”, invece,  rimane solo cennata, abbozzata, anche graficamente, nel manoscritto calviniano, riprodotto in anteporta al prezioso volume. E’ come se Calvino abbia detto: ‘Non me la sento; questa lezione l’ho smarrita, inconclusa, perduta.‘. Cioè: ‘Mi sono dedicato prima alle altre forme, quelle modali’. Tutto ciò è l’esatto equivalente della lezione di Eliot, naturalmente di altra epoca e intenzione; ma con identico modulo. Epperò:

“Dov’è la sostanzialità che abbiamo perso nel continuo affluire della leggerezza, della velocità, della esattezza ( anche il “Furor mensurandi”, che Calvino tematizzava nel colloquio con Giorgio De Santillana ), della molteplicità vorticosa e della eminente visibilità intuitiva ?”

 Ecco: integro così, in senso largo, la interpretazione di Eliot con Calvino; ma posso dire, con il neokantiano Ernst Cassirer di Sostanza e funzione; alla luce del vivo dramma della post-modernità, dove i valori sembrano soppiantati dalle modalità, le strutture portanti dagli archi, i contenuti dalla comunicazione. Fino al limite per cui gli apriori, le categorie, i valori ( arte, logica, economica, etica; o Ragion pura e Ragion pratica e Giudizio ) possono essere sì ripensati ma non espunti; modulati e sfaccettati nei loro modi di transizione, non già abbandonati; e – in definitiva – i princìpi kantianamente ‘costitituvi’ accompagnati certo dai ‘regolativi’ non già soppiantati né posti in non essere.

Perciò il lascito importante di Eliot e Calvino, ma già di Kant o di Croce, è quello di vedere dove trasmigrano le ‘forme’ in ‘guise’, e le ‘guise’ ( vichianamente ) in ‘modificazioni della mente umana’, e la società ‘liquida’ in nuove opere ‘solide’, e così via fino alla episteme contemporanea ( onde Popper conia nel Poscritto le “proprietà disposizionali” ), alla fisca teorica ( per il dualismo onde-particelle ), alla neurologia e alla scienza medica ( con il “nerve growth factor” della Montalcini ), alla endocrinologia ( impatto metabolico e ormonale sugli organi ), alla psicologia analitica ( principio di associazione nei soggetti normali e funzioni degli archetipi in Jung giovane e maturo ), alla cosmologia ( scoperta della onde gravitazionali ) e fin dove la mente umana ‘debole’ e sempre ‘tentativa’, ma inarresa, può arrivare.

Ma non si tratta di un mero “gioco” ( Spiel ) delle forme, relazioni, modalità e categorie, anche molto l’umanità deve alla conoscenza ( non cartesiana “coscienza” del cogito, ergo sum ) delle “guise” per cui e con cui le cose nascono e vivono e sono create da Dio ( natura ) e dall’uomo ( storia ). Il vichiano verum ipsum factum è alle fonti della modernità: prima Kant poi Scheling, con la “filosofia positiva” ( non basta dire che cosa è una cosa ma come essa si attua ), ne seguono, tracciano, approfondiscono i sentieri.

Ma i “modi categoriali” non interagiscono senza le “categorie”. “Non abbiamo bisogno dell’aiuto degli amici, quanto della fiducia nel loro aiuto”, recita il Gnomologio Vaticano X di Epicuro. E’ la permanenza, l’assolutezza del valore, che ritorna ad attrarci, nel paradigma dominante del “relativismo” ( da non confondersi con il “pluralismo” ). “M’insegnavate come l’uom s’etterna”, ricorda Dante a Ser Brunetto Latini. “Nous avont dit souvent d’impérissables choses”, canta Baudelaire alla nutrice nel commovente Le Balcon, de Les Fleurs du mal (1858), evocando il calore e l’ardore delle sere invernali trascorse attorno al fuoco ( “Notre infini sur le fini des mers”, ne Le Voyage ). Eliot, da parte sua, ricerca le “immutevoli idee” anche nell’amico Joyce, del cui Ulysses studia Ordine e Mito nel 1923 ( la ricerca del padre e il rapporto Bloom – Telemaco; il fluire del tempo; l’autonomia del’arte; le coordinate cosmico-galattiche dell’addio sul cancelletto di Dublino ). Ma Eliot non si ferma all’ Ulysses. Va oltre, sulla traccia degli archetipi di Jung, verso la valorizzazione di Finnegans Wake, nel cui “mondo” e nella cui “sintesi verbale del creato” rinviene la presenza della Donna-fiume; Anna Livia Plurabelle; la quaternità; i quattro libri, le quattro regioni dell’Irlanda, le quattro parti di Dublino, i quattro vecchi, i quattro Evangelisti e il Book of Kells al Trinity College; la teoria dei corsi e ricorsi storici, in virtù della cui acclamazione il IV Libro è detto “Il Ricorso”; l’ “inizio e la fine” delle parole che si ricongiungono.

Addirittura Eliot apprezza Finnegans Wake ( con il che mi ricongiungo anch’io, da fine a inizio del presente saggio ), perché l’opera joyciana fornisce eminente esempio di quanto la “interpretazione” di un testo sia molto di più e di diverso, rispetto alla mera “spiegazione” o “esplicazione” delle sue parole distintamente prese ( la stessa cosa che dice Croce nella Poesia del 1936 a proposito della explanatio verborum ). Four Quartets. I. Burnt Norton : Il tempo e la musica, “finché dura la nota” ( Agostino ). II. East Coker: “Nel mio principio è la mia fine”. III. The Dry Salvages: “riverrum” – il “fluido fiume” di Joyce-Schenoni o il “fila-fiume” di Joyce-Burgess: “Il tempo che distrugge è il tempo che conserva”. I. Little Gidding: “Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine./ E finire è cominciare / La fine è là donde partiamo”. “Ogni frase e ogni proposizione è un inizio e una fine”. Ancora, in Le frontiere della critica ( 1956 ): “ James Joyce era un uomo di genio, un amico, e il mio riferimento a Finnegans Wake in questa occasione non vuol significare né lode né biasimo in un’opera che sta certamente nella categoria di quelle chiamate a buon diritto monumentali: di libri come questi ne basta uno… Forse Joyce non si rendeva conto di quanto fosse oscuro il suo libro. Quale che sia il giudizio finale che spetta a Finnegans Wake ( e io non azzardo alcun giudizio ), non credo che la maggior parte della poesia ( quanto a Finnegans Wake, è una sorta di vasto poema in prosa ) sia scritta in tale maniera da richiedere una specie di dissezioneper essere goduta e capita. Ma sospetto che gli enigmi offerti da Finnegans Wake abbiano rafforzato l’errore, oggi dominante, di scambiarel‘ esplicazione per la comprensione” ( Opere 1904-1939, Bompiani 2001, I, pp. 642-646; II, pp.1285-1287 ; G. Brescia, Eliot e Joyce.“Quattro quartetti” – “Quattro momenti”, Laterza, Bari 2005: cfr. Croce, La Poesia, 1936, ed. Adelphi, 1994, La vita della poesia, pp. 74 sgg. e 274 sgg.; e H. G. Gadamer, Verità e metodo, ed. it. a cura di Gianni Vattimo, Bompiani 1983, pp. 480-490, a proposito di ‘linguaggio’ e ‘verbum’ ).